Non dimentichiamoci dell’Iran: cosa resta dopo mesi di proteste?
a cura di Sara Varcounig Balbi e Stella Elgersma
Giornata Internazionale della Donna, Teheran. All’interno del quartiere periferico di Ekbatan cinque ragazze ballano a capo scoperto. Un video, diventato presto virale, le vede danzare all’interno di un comprensorio popolare sulle note di “Calm Down” della cantante nigeriana Rema e Selena Gomez. Sorridono, si esibiscono in una breve coreografia e alla fine mandano un bacio alla telecamera. È un video divertente e spensierato, come quelli che vediamo quotidianamente su Tik Tok, ma la risposta del regime non tarda ad arrivare. Identificate grazie alla videocamera a circuito chiuso, le cinque ragazze sono state fermate, tenute in custodia dalla polizia per 48 ore e infine costrette a fare un video di scuse nazionali, in cui a capo coperto si pentono pubblicamente per il loro comportamento. Ballare spensieratamente significa sentirsi liberi ed è ciò che spaventa di più il regime iraniano in questo momento. Tuttavia il loro gesto non è passato inosservato. In risposta alla repressione del regime, tantissime ragazze iraniane stanno registrando e condividendo video in cui ballano “Calm Down” da sole o con le amiche. In Iran fare la rivoluzione significa anche mettersi davanti una videocamera e danzare a ritmo di musica.
A che punto siamo?
Il 13 settembre del 2022, la ventiduenne Mahsa Amini, viene arrestata e, secondo alcuni testimoni, percossa fisicamente dalla gasht-e ershad, la polizia morale iraniana, fino a perdere la vita qualche giorno dopo in ospedale. E questo perché non indossava l’hijab, uno dei veli islamici, in maniera conforme ai dettami della legge coranica, lasciando intravedere una ciocca di capelli. Da quel momento, in tutto il Paese si sono verificate centinaia di proteste contro il regime iraniano. “Zan, Zendegi, Azadi”, donna, vita, libertà. Sono le parole gridate da chi non vuole più cedere davanti alla discriminazione di genere, agli obblighi patriarcali e alla repressione di ogni diversità o dissenso.
Se le proteste in Iran sono inizialmente esplose a Saqqez, nel Kurdistan iraniano, a nord-ovest del Paese, durante questi mesi di rivoluzione si sono dilagate e diffuse in 161 città e in tutte e 31 le province del Paese, come viene riportato da un grafico dell’Istituto per gli Studi di politica internazionale.
Le manifestazioni hanno presto varcato anche i confini del Paese, raggiungendo l’Europa, gli Stati Uniti e il resto del mondo, con migliaia di persone scese in strada per solidarietà nei confronti delle donne, uomini e bambini iraniani e contro un regime che punisce tutti.
Uno Stato, l’Iran, che prima del 1979 vedeva le donne libere e che fino alla fine degli anni ’70 aveva vissuto una rivoluzione politica, sociale e culturale straordinaria, sotto lo Scià Mohammed Reza Pahlavi. Le donne si erano liberate da secoli di ancestrali oppressioni: niente più obbligo di velo, diritto di voto, allo studio e alla cultura. Minigonne, pantaloncini, jeans attillati o bikini, una singolarità in un Paese tradizionalmente islamico che però non è durata a lungo.
L’8 marzo 1979 viene definito come l’ultimo giorno di libertà per le donne iraniane. La rivoluzione islamica che avrebbe dovuto portare nuovi valori e libertà con l’insediamento dell’Ayatollah Khomeini, il religioso sciita che si opponeva alle politiche dello Scià, ha in realtà cambiato per sempre le sorti dell’Iran riportandolo indietro nel tempo di secoli.
Indossare il velo è tornata ad essere una pratica di cortesia, per poi diventare legge nel 1983, schiavitù negli ultimi venti anni e pretesto di uccisione da mesi.
Oggi, a fronte di 4 mesi di proteste, il movimento rivoluzionario contro l’obbligo di indossare l’hijab partito dalle donne e che ha infiammato l’Iran sembra essersi però acquietato. Il regime ha attuato una campagna di repressione violenta, con arresti, condanne a lunghe pene detentive e persino a morte. Ha limitato l’accesso a internet e alle piattaforme social e ha soffocato l’ira dei manifestanti finché le proteste non si sono fatte sempre più sporadiche e localizzate nei campus universitari o nel sudest del Paese.
L’11 febbraio scorso, poi, decine di migliaia di iraniani si sono riversati nel centro di Teheran e nelle principali città del Paese per celebrare il 44esimo anniversario della Rivoluzione islamica. Il presidente Ebrahim Raisi ha tenuto un discorso contro i “nemici dell’Iran”, coloro che manifestano per più diritti. E per dar loro un “contentino”, la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, ha liberato alcuni detenuti del regime, tra cui la ricercatrice franco-iraniana Fariba Adelkhak, arrestata nel giugno del 2019 e condannata a cinque anni di carcere per aver “minato la sicurezza internazionale”, e Farhad Meysami, in carcere dal 2018 con l’accusa di aver appoggiato le proteste delle donne.
Rilasciati, sí. Ma ad una condizione: che ammettessero di aver commesso reati e si pentissero promettendo di non tornare più in piazza.
Ora l’Iran è ancora più diviso, tra chi crede che le condizioni nel Paese non facciano che peggiorare e chi crede ancora nelle Autorità, dimostratesi però da mesi restie o incapaci di proporre soluzioni ai disastri sociali che affliggono l’Iran. Dopo che per settimane i media internazionali hanno inneggiato a una nuova rivoluzione, ora ci si chiede se questa stagione si stia chiudendo con un successo della Repubblica Islamica.
Il costo delle proteste in Iran
Cambiare radicalmente il sistema significa scontrarsi con chi quel sistema lo vuole mantenere e questo spesso comporta repressione, divisioni e spargimenti di sangue. Ogni rivoluzione porta con sé un proprio lato oscuro. In Iran il regime teocratico, incapace di dare ascolto alle richieste di riforma sociale, sta continuando a rispondere ai manifestanti con brutalità e violenza: dall’inizio delle proteste ci sono stati circa 20 venti mila arresti e più di 500 morti fra i manifestanti.
L’apice si è avuto fra dicembre e gennaio scorso, quando il regime ha cominciato a implementare l’utilizzo della pena capitale come tecnica di repressione. Mohsen Shekari, Maijdreza Rahanvard, Mohammad Mehdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini, sono stati condannati a morte come sentenza per i loro “crimini” in seguito a processi farsa e accuse manipolatorie. Ma questo potrebbe essere solo l’inizio. La magistratura ha emesso altre 17 condanne capitali e secondo l’Iran Human Rights altre persone potrebbero essere costrette a seguire un destino simile. Il timore è un’ondata di esecuzioni di massa come arma di repressione contro i manifestanti.
Tuttavia c’è un’altra storia che deve essere raccontata: quella di coloro che restano in carcere e subiscono quotidianamente abusi e torture da parte delle forze dell’ordine. Raccontare queste violenze, raccogliere le testimonianze di torture e stupri dimostra qual è il costo di scendere in piazza a manifestare. È una narrazione traumatizzante ma necessaria perché, come dichiarato da Narges Mohammadi, attivista iraniana per i diritti umani, non rivelare quello che succede negli angoli più bui del regime permette a chi ne è a capo di continuare ad agire sempre più indiscriminatamente. Come i report di Amnesty International raccolgono le prove di chi subisce ogni giorno le violenze del regime sulla propria pelle, con lo scopo di denunciare quegli abusi, cosí molti giornalisti ascoltano le storie delle persone che trovano il coraggio di parlare della propria esperienza. Come Dorsa, una ragazza di 25 anni che dopo aver raccontato la propria esperienza di incontro con le guardie del regime aggiunge: «I’m just completely broken». Sono completamente distrutta.
Silenziare le vite per silenziare le voci, aggredire i corpi per farli tacere. La verità è che il regime ha paura. Ha il terrore che questa volta la rivoluzione si faccia strada e che le loro strutture di potere vengano spazzate via. Perciò reagiscono con estrema violenza, polarizzando e spaccando sempre più la società e aggredendo in particolare quella parte di popolazione che dovrebbe rappresentare il futuro: i giovani.
Siamo arrivati alla fine della rivoluzione?
In queste ultime settimane il fuoco che ha alimentato le proteste in Iran da settembre sembra essere destinato a spegnersi. Repressione, censura, violenza stanno facendo il loro effetto sulla popolazione e il movimento sembra essersi ridotto. Fare la rivoluzione è un processo lungo e logorante e diventa sempre più difficile in mancanza di una leadership forte e in un contesto vessato da una forte crisi economica. E mentre da una parte proprio la crisi potrebbe fornire un ulteriore carburante alle proteste, dall’altra lascia poco margine alla fasce più povere e vulnerabili che vengono maggiormente colpite dalla repressione. Difatti tra le conseguenze delle proteste rientra anche il crollo dello riyal, la moneta iraniana, e questo significa aumento dell’inflazione e della povertà. Incerte sul proprio futuro, le persone della classe media perdono interesse in una rivoluzione che vedono votata, come quelle precedenti, al fallimento mentre i meno abbienti vengono presi come bersagli prediletti per le azioni più violente della polizia.
Tuttavia all’interno di questo tetro quadro iraniano resiste un bagliore di speranza ed è rappresentata proprio dalla Generazione Z. Le proteste attuali sono infatti portate avanti per la maggior parte da giovani iraniani sotto i venticinque anni, dichiaratamente estranei alla mentalità delle vecchie generazioni e contro un regime violento ed oppressivo, spiega Mehdi Khalaji del Washington Institute for Near East Policy.
Non è un caso che ultimamente le proteste e le conseguenti repressioni si siano spostati nei campus universitari e nei licei: la polizia morale è particolarmente allarmata dall’istruzione e dal sapere critico che emanano questi luoghi e ha sequestrato un gran numero di studenti che avevano violato il codice islamico per “rieducarli” nei campi della moralità. Per questo motivo molti sospettano che dietro l’avvelenamento di centinaia di studentesse iraniane avvenuto in novembre, uno dei mesi più caldi delle proteste, ci sia qualche gruppo estremista con il tacito appoggio del governo.
Questo episodio però non ha bloccato i manifestanti ma ha fornito una nuova enfasi in un momento di stallo. La rabbia e il rifiuto a tornare allo stato precedente alle proteste di settembre continuano a diffondersi all’interno della società. Come ha dichiarato Sarvenaz, studentessa di psicologia presso l’università di Teheran, tornata in classe il giorno successivo alla prima esecuzione: «Quel giorno mi sono sentita male a ritornare all’interno dell’atmosfera oppressiva della nostra università. Sono tornata a casa e ho pianto. Poi ho realizzato che non avrei mai più potuto essere una studentessa in Iran perché non potevo più tollerare quel livello di oppressione».
La Generazione Z non si ferma, anzi. La sua miccia rimarrà accesa fin quando il regime cambierà. «Non abbiamo paura dei vostri proiettili, uccideteci pure, ma non potrete uccidere la nostra voglia di libertà», gridano i ragazzi. È una generazione in contatto con il resto del mondo attraverso Internet e i social, consapevole che la vita può essere vissuta in modo diverso e che ha scelto di non farsi guidare né strumentalizzare, ma di usare metodi pacifici per lottare.