Raccontarsi: rappresentazioni di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA)
Raccontarsi: rappresentazioni di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA)

Raccontarsi: rappresentazioni di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA)

Raccontarsi: rappresentazioni di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA)

Cosa si prova quando si soffre di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA)? 

«Il cibo per me ha sempre rappresentato un modo per riempire le mie mancanze. Mi sono sentita sempre troppo poco». 


«Senza accorgermene ho iniziato a restringere sempre di più, fino a quando mi sono ritrovata nel pieno della mia malattia». 


«Volevo avere un corpo perfetto, per contenere con un involucro invalicabile il mio fragile Sé. […] La verità è che volevo solo essere vista».


«Di base, di mia natura, sono una persona golosa, ma da quel periodo scaricai tutto quel dolore nel cibo, come se esso potesse risolvere tutti i problemi della vita. Facevo finta di essere golosa per nascondere il mio dolore nel cibo».

Queste parole sono state prese dalle testimonianze di alcune persone che hanno sofferto di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA). L’associazione “Animenta” nasce dalle storie delle persone che hanno vissuto un disturbo alimentare ma anche dalle voci, dalle parole di chi ha vissuto accanto a loro. Le storie ci permettono di comprendere la complessità di una malattia, come un disturbo alimentare.  

Rappresentare i DCA

In Italia il 15 marzo è la “Giornata del Fiocchetto Lilla”, un giorno dedicato alla sensibilizzazione sul tema dei DCA. La scelta del giorno deriva dalla richiesta promossa da Stefano Tavilla che per primo ha segnalato l’importanza di dedicare una giornata su queste tematiche in seguito alla morte della figlia Giulia di 17 anni avvenuta proprio il 15 marzo 2011 per bulimia, mentre era in lista d’attesa per un centro di ricovero.

Ad oggi circa 3 milioni di persone soffrono di questa malattia e a causa di un DCA muoiono  4 mila persone l’anno. Chiunque può soffrirne ma sono principalmente i giovani e i giovanissimi ad esserne afflitti. Infatti se di base l’età di insorgenza media dei primi sintomi si situa tra i 15 e i 25 anni, i dati dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano come si sia verificato un abbassamento dell’età d’esordio, con il 30% di coloro che ne soffrono individuati al di sotto dei 14 anni. 

Un DCA è una patologia complessa e psichiatrica e il processo di guarigione deve essere avviato assieme a degli esperti e professionisti del settore. Da un DCA si può guarire ma solo con il sostegno adeguato. Ciò risulta ancora più importante se si considera che, nonostante la larga diffusione di questa malattia, esistono ancora delle narrazioni che non considerano la malattia sufficientemente “valida” e la raccontano in maniera stereotipizzante. Un esempio è la retorica del DCA come “capriccio” o come fissazione sul cibo. Non è così. Chi soffre di questa patologia prova un profondo dolore interiore che si manifesta all’esterno tramite il rapporto con il proprio corpo e il cibo. Fornire una corretta rappresentazione dei DCA è fondamentale per comprenderli e poter garantire le cure a chi ne ha bisogno.

Raccontare la complessità

Per approfondire la realtà multifattoriale di queste malattie abbiamo intervistato Aurora Caporossi, fondatrice di “Animenta”, un’associazione no profit creata dai più giovani per sensibilizzare, prevenire e fornire un sostegno a chi soffre di un DCA. Animenta nasce dalle storie di chi ha affrontato queste malattie, lavora molto sulla parte dell’informazione e sul garantire una corretta rappresentazione. Propone progetti di sostegno terapeutico come i laboratori di cucina e delle cene virtuali in cui poter condividere un momento delicato come quello dei pasti. Inoltre ha creato un progetto teatrale assieme ad Ambra Angiolini intitolato “Lettera al corpo” dove i partecipanti hanno avuto la possibilità di scrivere una lettera al proprio corpo e metterla in scena in maniera anonima tramite musica, danza e recitazione. 

La conversazione con Aurora Caporossi tocca molti punti e ci permette di comprendere a fondo il progetto “Animenta” e la complessità dei DCA. Di seguito riportiamo alcune delle domande che le abbiamo posto e le sue risposte. 


Nella vostra presentazione ci ha colpito il fatto che abbiate scritto che Animenta è “un luogo in cui ogni storia è accolta e il giudizio è bandito” e che siete nati con l’obiettivo di raccontare queste malattie. Quindi si può dire che fate del processo di scrittura del racconto di sé o di alcune esperienze come “metodo di cura”?

Non utilizzerei il concetto di "metodo di cura”, ma sicuramente la scrittura potrebbe rientrare all’interno del percorso di guarigione di una persona, che resta guidato principalmente dai professionisti. Non esiste un tempo predefinito per parlare della propria esperienza ma è importante capire quando si è pronti a farlo perché quando racconti qualcosa, quando parli della tua storia è come se tutto quello che si è vissuto si concretizzasse nuovamente davanti ai tuoi occhi. Noi crediamo molto nel potere delle storie anche perché c’è una mancanza di rappresentazione e di narrazione e questo arriva a creare degli stereotipi e dei falsi miti. Vale per tutte le narrazioni che riguardano corpo e cibo che ad oggi sono forse uno dei temi di cui si parla maggiormente. 

In molte testimonianze, se è possibile trovare un punto comune, abbiamo notato che esiste la sensazione di provare un vuoto interiore o di non sentirsi abbastanza. Da qua la necessità di riversare il proprio dolore sul rapporto con il cibo. Si può dire che soffrire di un DCA sia una “malattia della solitudine”?

I DCA hanno a che fare sempre con un fondo di solitudine. Una solitudine che magari c’è anche quando sei circondata da tantissime persone e riguarda anche una mancanza di riconoscimento. Non corrisponde alla mera ricerca di attenzioni ma è proprio una ricerca di identità: chi sono io? Per agire sulla propria identità la ricerca passa anche attraverso il corpo che è, ad oggi, il “biglietto da visita” con cui ci presentiamo all’ "altro". Noi parliamo sempre dei corpi, soprattutto dei corpi altrui. Parliamo sempre per i corpi degli altri ma mai con essi. Non ci fermiamo a capire che dietro il corpo c’è una persona e c’è una storia. Il modo in cui un corpo è al mondo non lo conosciamo eppure lo commentiamo sempre. Non sappiamo magari quanta sofferenza ci sia dentro. I DCA hanno a che fare con la solitudine e anche con le relazioni, con una relazione mancata tra me stesso, l'altro, il riflesso che sta nello specchio e dietro al legame con il cibo.

Perciò quando si riconosce di soffrire di questa malattia e si cerca di avviare un processo di guarigione, un primo passo può essere ricostruire una relazione con il corpo e anche con gli altri?

È importante partire da sé e da quelli che sono i tanti “perché” che hanno portato ad un DCA. Non tutte le persone che soffrono di un DCA sono visibilmente malate, non sempre hanno segni visibili nel corpo. In terapia è importante raggiungere le diverse cause, ripartire da sé stessi, il proprio corpo e anche il rapporto con la propria famiglia. In terapia è infatti fondamentale considerare anche la sofferenza della famiglia e includerla nel percorso terapeutico.

Parlando della società più generale. Si parla molto di “società dell’immagine” con le star di Hollywood che si iniettano farmaci per dimagrire e l’utilizzo dei filtri sui social media per rendersi più belli. Come impatta tutto questo su chi sta soffrendo di un DCA? Che messaggio arriva?

Siamo perennemente sottoposti a tantissimi input di una vita perfetta che nella realtà non c’è, che è molto difficile da raccontare.. Come ci spiega Fiorenza Sarzanini in “Affamati d’amore”, la perfezione non esiste, però esiste la sua continua ricerca che ad oggi risulta essere smodata. Sicuramente il modo in cui raccontiamo i corpi ha un effetto. Trattiamo spesso il corpo come se fosse un trend da seguire e questo ha un grandissimo impatto su di noi ma soprattutto sul disagio che una persona prova con il proprio corpo. Diverse ricerche lo dimostrano. I DCA sono malattie multifattoriali quindi esistono una serie di cause e concause che portano alla loro insorgenza. Fra queste è importante considerare anche i fattori psicologico-sociali e perciò anche la comunicazione e la narrazione sui corpi. 

Pensando al tema “bonus psicologo” e al boom di richieste fatte anche da molti giovani senza i mezzi necessari per poter andare in privato, ci si chiede se si può parlare di disuguaglianza di accesso anche per chi soffre di un DCA.

La diseguaglianza ha molto a che vedere con la regione nella quale sei nato. Esistono regioni che riescono ad offrire dei centri specializzati per la cura dei disturbi alimentari, in altre regioni non troviamo nulla.. In “La famiglia divorata” Agnese Buonuomo racconta dei pellegrinaggi che le famiglie fanno, cambiando residenza in alcuni casi, per poter curare un figlio, con tutti i costi psicologici ed economici che ne conseguono. Inoltre esiste una disuguaglianza all’accesso anche per questioni di peso o di età. Se hai più di 25 anni in molti centri non ti prendono e spesso le visite sui DCA si basano sull’indice di massa corporea (IMC) anche se i DCA non sono solo una questione di peso. Infatti molte persone che soffrono di un DCA sono o normopeso o sovrappeso. Il problema qui è che non ci sono fondi e professionisti adeguatamente formati. 

Processi di guarigione

Per “Animenta”-spiega Aurora Caporossi- «il 15 marzo è tutti i giorni». L’importanza di avere una giornata nazionale dedicata alla sensibilizzazione sui DCA permette di avere più visibilità e di far sentire la loro voce. L’obiettivo è far crescere l’attenzione e la prevenzione verso queste malattie, con la speranza che vengano prese decisioni politico-istituzionali in grado di garantire delle cure necessarie e specifiche a chiunque soffra di un DCA a livello nazionale. Tuttavia il 15 marzo è anche “una giornata della memoria e del ricordo” verso chi non ce l’ha fatta, che dimostra quanto ancora ci sia da lavorare su questo aspetto. Perché «questo giorno nasce da una perdita e ci ricorda che quando non offriamo cure adeguate di DCA si muore». 

Per questo motivo, Caporossi sottolinea quanto sia importante chiedere aiuto nel momento in cui si sta male. «Non credo ci sia o ci potrà essere un’unità di misura per calcolare il dolore ed è veramente importante chiedere aiuto quando ne sentiamo il bisogno e non quando raggiungiamo il fondo». Nei DCA il corpo e il rapporto con il cibo diventano uno strumento per far fuoriuscire un dolore profondo che altrimenti si sarebbe incapaci di esprimere e di affrontare. Ascoltare veramente l’altro, tentare di comprenderlo e non giudicarlo. In questo, la narrazione gioca un ruolo fondamentale. Solo tramite le storie, l’immedesimazione, l’empatia è possibile creare uno spazio comune, un terreno di incontro per comprendere e affrontare il processo di guarigione. Solo se viene fornita una corretta rappresentazione sarà possibile fornire delle cure adeguate a chi ne ha necessità e bisogno, senza stigma, pregiudizi e inutili stereotipi.  

“Animenta” nasce dalle storie di chi ha attraversato questa malattia per dare la speranza che si possa guarire. Aurora Caporossi a 16 anni ha sofferto di anoressia nervosa, prima di chiudere l’intervista le chiediamo come abbia trovato il coraggio di esporsi e raccontare la propria esperienza.

Più che il coraggio è stata la necessità di doverlo fare. Il racconto nasce dalla necessità di dar voce al silenzio. Io sono stata tantissimi anni in silenzio, vergognandomi, ma non ci si può vergognare della propria storia e di ciò che una persona ha affrontato.

La narrazione come strumento per comprendere i DCA e venirsi incontro. Raccontarsi per fare la differenza.