Il vero costo del fast fashion: tra sfruttamento e inquinamento
Il vero costo del fast fashion: tra sfruttamento e inquinamento

Il vero costo del fast fashion: tra sfruttamento e inquinamento

Il vero costo del fast fashion: tra sfruttamento e inquinamento

Con l’avvento di quella che viene comunemente definita la “società dei consumi,” specialmente il ricco e benestante Occidente ha cominciato ad acquistare beni senza chiedersi da dove venissero o come fosse possibile avere accesso ad una tale quantità di… cose. Come può una t-shirt costare appena una manciata di euro? Cosa c’è davvero dietro quel prezzo apparentemente così conveniente?

L’industria della moda fattura ogni anno cifre colossali che hanno superato i cento miliardi solo nel 2023. I dati suggeriscono, insomma, un settore in sostanziale crescita, trainato in particolar modo dalla Cina per cui, ormai alcuni anni, il lusso sta diventando sempre di più made in China.

Fast fashion: una minaccia per il pianeta…

Come già detto in altre occasioni, va fatta un’importante distinzione tra fast fashion e slow fashion: la prima intende imitare le tendenze dei grandi stilisti a prezzi fin troppo accessibili. Di contro, le seconde si oppongono a questo sfrenato sistema di produzione, optando per una più attenta scelta dei materiali e un numero di capi realizzati decisamente inferiore, sebbene ad un prezzo decisamente più elevato. Nel complesso, in ogni caso, l’industria della moda ha un impatto ambientale massiccio e che deve assolutamente metterci in allerta: stando ad un rapporto delle Nazioni Unite, infatti, l’industria della moda produce tra l’8% e il 10% di tutte le emissioni globali di CO2, ovvero tra i 4 e i 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immessa in atmosfera ogni anno. Ciò significa che produciamo molto più di ciò che riusciamo effettivamente ad utilizzare, considerato che l’invenduto viene spesso gettato in discarica o negli inceneritori. L’ormai celebre documentario The True Cost presenta molto bene queste dinamiche, puntualizzando come nei soli Stati Uniti la produzione di vestiti sia passata dal 95% negli anni Sessanta all’appena 3% nel 2010. Ovviamente, ciò non si traduce in una riduzione della domanda, che è al contrario aumentata, complice anche il vertiginoso aumento della popolazione mondiale registratosi nelle ultime decadi. 

La globalizzazione e il capitalismo hanno creato una serie di aspettative nei Paesi occidentali che hanno drasticamente modificato il nostro stile di vita in un arco di tempo relativamente breve. Insomma, le promesse di una crescita senza fine, così come l’idea che non ci sia un’alternativa a questo sistema di produzione, hanno fatto sì che i Paesi più ricchi smettessero di preoccuparsi della provenienza non solo dei vestiti ma, in generale, di tutti quegli oggetti in grado di generare benessere.

There is no alternative

Margaret Thatcher

Quella che è, almeno apparentemente, l’unica alternativa per generare crescita, ha tuttavia un prezzo elevatissimo in termini ambientali, ma che facciamo ancora fatica a voler seriamente affrontare. Negare che l’industria del fast fashion non sia anch’essa responsabile dell’inquinamento e del collasso climatico in cui ci troviamo significa decidere di non voler fare i conti con la realtà, dal momento che farlo significherebbe dover rimettere in discussione l’intero modello produttivo attuale. Il fast fashion va considerato come parte integrante della cosiddetta “throwaway culture”, sviluppatasi proprio in risposta ai cambiamenti della globalizzazione e dell’urbanizzazione dettati società dei consumi.

Nel complesso, dunque, l’industria della moda non è che uno dei tanti elementi che sta minacciando la nostra esistenza su questo pianeta. Le emissioni di CO2 prodotte da questo settore vengono ancora erroneamente sottovalutate in virtù del fatto che generano profitti pari a miliardi di dollari. È il caso di SHEIN, ad esempio, che negli ultimi anni ha spopolato sui social grazie a campagne di marketing aggressive e massicce, tanto da sorpassare colossi quali H&M o Zara. In generale, nessuna multinazionale fast fashion sembra interessarsi di quello che è l’impatto ambientale dei loro prodotti, che ogni anno sprecano tonnellate d’acqua e sono responsabili del rilascio di microplastiche negli oceani, con tutte le conseguenze del caso sulla salute degli esseri umani e degli animali. È per questo che, invece, l’industria del fast fashion dovrebbe impegnarsi a rispettare quelli che sono i trattati internazionali perché in gioco c’è la salvaguardia del nostro benessere e del nostro futuro. Soprattutto delle nuove generazioni.

… ma anche per i diritti umani

L’industria della moda impiega milioni di persone le cui condizioni lavorative, però, portano ancor più alla luce quello che è il suo lato oscuro. Non è un mistero che le multinazionali in questione siano solite delocalizzare la produzione in Paesi in via di sviluppo la cui legislatura in materia di diritti dei lavoratori è decisamente più “morbida” e le tutele per la manodopera impiegata sicuramente meno stringenti, come Bangladesh, Indonesia o Malesia. Non dovrebbe stupire che proprio in queste aree del mondo si siano sviluppate le cosiddette Zone economiche speciali (ZEP), porzioni di territorio in cui investitori stranieri sono potuti intervenire adottando legislature vantaggiose per i loro profitti, ma totalmente miopi di fronte alle condizioni lavorative. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che oltre 66 milioni di persone che lavorano in queste aree siano giovani donne migranti, con salari inadeguati e condizioni di lavoro precarie. In più, si tratta spesso di aree separate dalle grandi città: chi lavora vive spesso segregat* in spazi ristretti e fortemente tossici con gravi conseguenze per la loro salute, oltre a lavorare per un minimo di dieci ore al giorno in condizioni di sicurezza spesso precarie. Il collasso di Rana Plaza del 2013 non è stato che il culmine di questo sistema produttivo malato e nocivo, ma che a distanza di dieci anni dal tragico evento non sembra intenzionato ad invertire la rotta.

Insomma, il quadro che emerge non è dei migliori, e suggerisce che una svolta sia ancora lontana: più abbiamo, più vogliamo avere. Siamo guidati dalla convinzione che ciò che possediamo sia ciò che ci definisca, e che per questo motivo dobbiamo inseguire il trend del momento, anche a costo di alimentare una cultura del consumo immediato e frenetico. Dietro il mondo patinato della moda si nasconde una minaccia che dovrebbe portare ognuno di noi a riconsiderare il second hand, la moda circolare o, più semplicemente, aprire il nostro armadio senza farci condizionare dal mondo esterno. Allo stesso tempo, però, serve un’azione collettiva per far sì che più nessuno debba perdere la vita per una t-shirt o un paio di jeans.