COP26: un fallimento totale?
COP26: un fallimento totale?

COP26: un fallimento totale?

COP26: un fallimento totale?

a cura di Lucrezia Pagano e Ilaria Sacco

Dopo settimane di negoziazioni, andate più o meno a buon fine, e di proteste in tutto il mondo, la COP26 volge al termine. Quella che è stata definita la conferenza dei “blah, blah, blah” si è conclusa con un documento finale, il Glasgow climate pact, in cui sono presenti poche luci e tante tante ombre. Lo stesso Boris Johnson, che ha detenuto la Presidenza della COP26, ha detto: «la mia soddisfazione per i progressi fatti è anche macchiata da delusione». Questa è la sensazione che lascia a tutti la COP26: si poteva – e si doveva – fare molto di più.

In questo contesto, si vuole ora riflettere su quei punti che ci suscitano ancora un po’ di speranza e quelli che invece ci lasciano con l’amaro in bocca

Cosa non è andato…

La negoziazione perfetta è quella che scontenta tutti 

John Kerry, inviato speciale Usa per il clima

Gli ambiziosi ma necessari obiettivi della COP26 che avevano prodotto grandi aspettative ed entusiasmo sono stati raggiunti solo in parte. Nonostante i negoziati siano durati un giorno in più e malgrado lo straordinario impegno della comunità internazionale nel trovare compromessi e raggiungere un accordo a tutti i costi, molti hanno commentato la fine dei negoziati con parole dure, intrise di una forte delusione. Emblematica è stata la commozione del Presidente della Conferenza Alok Sharma, che alla fine dei lavori ha dichiarato di essere molto dispiaciuto sui risultati dell’accordo. 

Ma quali sono stati i punti maggiormente criticati?


  • Indebolita l’eliminazione del carbone

Come già anticipato durante il G20 a Roma, alcuni Paesi produttori di carbone hanno rifiutato di impegnarsi per il raggiungimento della neutralità carbonica a livello globale entro il 2050. Non è stata quindi raggiunta una data condivisa: per l’Unione europea, gli Stati Uniti e un altro gruppo di Paesi tale scadenza è il 2050, mentre la Cina e l’India hanno proposto rispettivamente il 2060 e il 2070.

Inoltre, il testo è stato “annacquato” dall’India con un colpo di scena inaspettato, poiché al posto della parola “fuoriuscita” è stata inserita la parola “riduzione”, aggiungendo la formula unabated – che si riferisce alle emissioni non abbattute – e uno stop ai sussidi delle fonti fossili inefficienti. Queste modifiche comportano non più una phase out (eliminazione graduale del carbone), come originariamente proposto, ma una phase down, permettendo agli Stati di continuare ad utilizzare il combustibile fossile, le cui emissioni rappresentano quasi il 40% della CO2 emessa su scala globale. 

Il passaggio imposto dall’India ha provocato non pochi malumori, poiché si è trattato di un compromesso al ribasso contrario allo spirito della COP. Tuttavia, è anche la prima volta in cui un accordo delle Nazioni Unite prevede formalmente alcune – seppur limitate – forme di uscita.


  • I 100 miliardi per i Paesi in via di sviluppo per una transizione giusta ed equa non sono stati ancora trovati

I Paesi sviluppati, primi fra tutti USA e UE, hanno fallito nel procurare i 100 miliardi per i Paesi in via di sviluppo, promessi dalla COP di Copenhagen del 2009, quindi 12 anni fa. Questi finanziamenti, rimandati al 2023, sono essenziali per costruire un sistema energetico sostenibile e far fronte a fenomeni meteorologici sempre più estremi. L’impegno è di aumentare, o persino raddoppiare, gli stanziamenti in futuro tra il 2025 e il 2030. I Paesi poveri, che sono anche quelli più fragili, avrebbero voluto una formula più stringente per recuperare anche le quote non versate in precedenza. Purtroppo, non l’hanno ottenuta. 


  • Non sono stati garantiti fondi per Perdite e Danni per i Paesi vulnerabili, che subiscono il 92% dei danni causati dalla crisi climatica

Il sistema di “Loss and damage” affronta un tema spinoso di responsabilità storiche per la perdita di territori nazionali, danni culturali e la scomparsa degli ecosistemi. A Glasgow doveva essere creato un database e un sistema di comunicazione e segnalazione, chiamato Santiago Network, ma la questione è stata rinviata alla COP dell’anno prossimo. L’accordo finale riconosce solo il diritto a vedersi riconosciute perdite e danni ma non prevede un fondo dedicato. Ovviamente, i Paesi dell’Africa, gli Stati insulari e quelli dell’America Latina hanno espresso il loro malcontento.

… e cosa è da salvare?

  • L’obiettivo “keeping 1,5 °C alive” è stato mantenuto

Il presidente della COP26 Alok Sharma ha comunque rivendicato diversi risultati raggiunti, tra cui quello – affatto scontato – di aver mantenuto vivo l’obiettivo di contenere le temperature globali al di sotto degli 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Tale impegno è considerato dagli scienziati il valore limite entro cui mantenersi per prevenire le conseguenze disastrose del riscaldamento globale. Si tratta di un ottimo segnale, seppur debole, che sopravviverà solo se le parti si impegneranno a mantenere le loro promesse

  • Approvate le regole sulla Trasparenza per attuare l’Accordo di Parigi e chiuso l’accordo sull’Articolo 6 per il mercato di scambio delle emissioni

Una parte dei negoziati ha avuto come tema la trasparenza del sistema di contabilità delle emissioni. Consiste in complesse tabelle Excel dove, per attività e tipo di gas serra, i Paesi dichiarano le loro emissioni e sottopongono i propri sforzi al giudizio altrui. L’accordo raggiunto a Glasgow prevede che i Paesi in via di sviluppo che hanno bisogno di flessibilità nella contabilità delle emissioni possono evitare di consegnare alcuni dati e riempire le caselle mancanti con la sigla Fx (che sta per flessibilità).

Il mercato del carbonio, previsto dall’articolo 6 degli Accordi di Parigi, riguarda un sistema di scambio delle emissioni tra i Paesi. Dopo sei anni di trattative, è stato trovato un accordo su come regolamentare il mercato dei crediti, attraverso un meccanismo di cooperazione internazionale e progetti per accelerare l’assorbimento delle emissioni.


  • Decisi il taglio di emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 e NDCs (National Determined Contributions) a scadenza annuale

A Glasgow è stata fatta richiesta, a tutti i Paesi che non lo abbiano ancora fatto, di alzare i propri obiettivi di riduzione al 2030 presentandoli alla prossima conferenza che si terrà a novembre 2022 in Egitto. È stato quindi modificato il meccanismo di revisione di target di riduzione delle emissioni, che devono essere presentati non più ogni cinque anni ma ogni anno. Questi contributi determinati a livello nazionale (NDCs) servono per centrare l’obiettivo di mitigazione dell’Accordo di Parigi.


  • Riferimento a metano come gas serra non CO2 

100 Stati hanno aderito a un’iniziativa guidata da USA e UE per la riduzione del 30% delle emissioni di metano entro il 2030. Il metano è un gas a effetto serra con un global warming potential 25 volte più elevato della CO2, poiché le sue perdite, derivanti dall’estrazione e dai gasdotti, sono dannosissime per il clima. Tale iniziativa permetterebbe infatti di limare di 0,2 gradi l’incremento di temperatura previsto al 2030.


  • Accordo su deforestazione entro il 2030

L’impegno prevede tutta una serie di propositi per fermare la deforestazione e incentivare pratiche più sostenibili per l’agricoltura e il sostentamento delle popolazioni le cui condizioni di vita dipendono dalle foreste. I 100 Paesi firmatari che ospitano l’85% delle foreste mondiali, hanno promesso di stanziare 12 miliardi di dollari, a cui si aggiungono 7 miliardi promessi da società private. L’accordo è stato elogiato dagli esperti in quanto gli alberi sono essenziali per l’assorbimento di CO2.

I primi bilanci della COP dimostrano che è indubbia l’evoluzione avuta dalla prima Conferenza delle Parti (1995) ad oggi e la consapevolezza raggiunta dagli Stati sulla necessaria cooperazione per salvarsi dalla minaccia dei cambiamenti climatici. Ciononostante, non appare ancora chiaro se gli accordi multilaterali siano disciplinati dal diritto internazionale o dipendano dalla volontà dei singoli Paesi, che sono interessati alle politiche di potere anziché al destino dell’umanità e dell’intero pianeta. 

Il vero protagonista: l’attivismo dei giovani

La COP26 è stato l’evento più atteso e significativo di questo 2021, con una partecipazione senza precedenti: quasi 40 mila persone tra negoziatori, osservatori, società civile e stampa. Ma i veri protagonisti della Conferenza sono stati i giovani attivisti di tutto il mondo, che si sono fatti valere sia fuori che dentro lo Scottish Exhibition Centre. È grazie alla loro decisiva pressione e mobilitazione che i leader mondiali hanno raggiunto alcuni risultati importanti. Nella sola giornata del 5 novembre, i manifestanti da tutto il mondo sono arrivati a circa 100mila.

A rilevare gli aspetti negativi della Conferenza di Glasgow è arrivata soprattutto la condanna degli ambientalisti, prima fra tutti Greta Thunberg.

Multilateralismo: tra G20 e COP26

Il multilateralismo è la migliore risposta ai problemi che affrontiamo oggi. Per molti versi, è l’unica soluzione possibile. Dalla pandemia, al cambiamento climatico, a una tassazione giusta ed equa, fare tutto questo da soli, semplicemente, non è un’opzione possibile

Mario Draghi, conferenza finale del vertice di Roma

La COP26 era fondamentale non solo per il contrasto alla crisi climatica, ma anche per rafforzare quell’approccio che durante il vertice di Roma del G20 si è rivelato vincente: il multilateralismo.

Nel corso della Presidenza italiana del G20, è stato istituito un Framework working group, il cui obiettivo è quello di raggiungere una risposta sempre più coordinata alle crisi globali. Il rafforzamento del multilateralismo e della collaborazione internazionale sono stati i temi cardine dell’anno di presidenza italiana, a cui spettava anche la co-presidenza della COP26.

I due eventi, G20 e COP26, si sono susseguiti e il primo voleva gettare le basi per la cooperazione nel secondo, anche grazie all’Italia. Proprio durante la conferenza stampa finale del G20, Mario Draghi aveva dichiarato l’urgenza di una cooperazione internazionale, in ambiti come il climate change.

In questo contesto, per la prima volta le questioni climatiche e ambientali sono state poste al centro del filone finanziario; durante questo G20 si è costituito un gruppo di lavoro permanente sulla finanza sostenibile, grazie al quale è stata approvata una Roadmap che intende favorire l’allineamento degli investimenti pubblici e privati con l’Accordo di Parigi e l’Agenda 2030. 

Il G20 ha inoltre incoraggiato a sostenere in modo più concreto la transizione ecologica dei Paesi in via di sviluppo, un tema su cui invece la COP26 è risultata molto carente, come abbiamo in precedenza sottolineato.

L’anno del grande ritorno del multilateralismo, culminato con gli incontri di Roma e Glasgow, comincia con l’elezione di Joe Biden a Presidente degli Stati Uniti, dopo la parentesi Trump. In questa visione del mondo, all’unilateralismo e sovranismo bisogna sostituire un’attenta e pronta cooperazione internazionale. Anche per quanto riguarda il clima, definito “la sfida multilaterale del momento”, Biden ha cercato di riportare l’attenzione sulla necessità di un’intesa globale sin dal primo giorno della sua Amministrazione, inviando anche il suo special one per il clima John Kerry in giro per il mondo.

La collaborazione multilaterale, però, è stata anche “oscurata” da alcuni accordi bilaterali: persino Cina e USA hanno deciso di venirsi incontro, nonostante l’assenza fisica del leader cinese Xi Jinping. E allora ecco che della COP26 ricorderemo più l’accordo trovato tra queste due potenze, piuttosto che “l’annacquato” accordo finale approvato da tutte le Parti. E a proposito di Pechino e Washington, lo scorso lunedì Joe Biden e Xi Jinping hanno tenuto il primo incontro bilaterale dall’elezione del nuovo presidente americano…

A pochi giorni dalla fine del vertice finale del G20 di Roma e delle dure settimane di COP26, è lecito farsi una domanda: la comunità internazionale risulta davvero rafforzata dopo questi eventi?