Residuo di umanità
Residuo di umanità

Residuo di umanità

Residuo di umanità

Una foto, un foglio. Sopra sono elencati quattro punti, scritti in lingua inglese: 

«1. Ho paura che se torno in Libia la mia vita sarà in pericolo. 2. Ho bisogno di vedere un dottore per i miei problemi di salute. 3. Chiedo al governo italiano di lasciarci sbarcare urgentemente. 4. Non chiamo la mia famiglia da 9 mesi. Voglio chiamare mia madre per dirle che sono vivo».

Siamo a Catania, sulla GeoBarents, la nave umanitaria di Medici Senza Frontiere. Il ragazzo che tiene il foglio sollevato verso la macchina fotografica si chiama Abir e ha 22 anni. Indossa una maglietta rossa, una sciarpa blu e ha i capelli corti tagliati a caschetto. Il suo sguardo è serio, velato da un filo di rassegnazione. Abir è una delle 215 persone che non sono state fatte sbarcare la notte precedente, che non sono state scelte per poter scendere in Italia. Rientra in quello che il Ministro dell’Interno italiano chiama “carico residuale”.

Il caso Humanity 1 e GeoBarents

Sabato 5 novembre la nave umanitaria Humanity 1 ha attraccato nel porto di Catania. Erano da poco passate le 23 quando sono cominciati i preparativi per far sbarcare le 179 persone che l’imbarcazione teneva a bordo. Arrivato in Italia, tuttavia, il personale della SOS Humanity si è trovato di fronte ad una situazione anomala: durante il corso della notte solamente 144 persone sono potute scendere ed essere accolte presso i centri medici, le altre non hanno avuto l’autorizzazione a procedere. Nelle ore successive il capitano ha ricevuto l’ordine da parte delle autorità italiane di dirigersi di nuovo verso acque internazionali assieme alle altre 35 persone rimaste a bordo. Si è poi verificato lo stesso fatto anche per un’altra imbarcazione, la GeoBarents: 215 persone sono dovute rimanere sulla nave in seguito ad uno “sbarco selettivo”.

Queste condizioni d’arrivo paradossali sono il frutto del nuovo decreto interministeriale sull’immigrazione voluto dal governo Meloni. Il provvedimento a firma dei ministri Piantedosi, Salvini e Crosetto prevede che una nave umanitaria possa sostare in acque territoriali italiane solo per il tempo «necessario per le operazioni di soccorso e assistenza a persone in condizioni di emergenza e in condizioni di salute precarie». In sostanza, il personale medico italiano è autorizzato a fare una selezione a bordo di coloro che sono ritenuti in condizioni di così “grave vulnerabilità” da poter scendere e ricevere assistenza umanitaria. Cosa si intenda con “grave vulnerabilità” il decreto non lo esplicita e lascia libero spazio alle decisioni arbitrarie. 

Il governo italiano ha giustificato la propria posizione fornendo un’interpretazione alquanto bislacca del Regolamento di Dublino dell’UE. In una conferenza stampa, il ministro Piantedosi ha spiegato che, poiché ogni nave umanitaria batte bandiera di uno Stato europeo, dovrebbe essere il Paese in questione a prendere in cura le persone che si trovano a bordo. Giustificandosi ha dichiarato che l’Italia garantirà senza alcun tipo di deroga un aiuto assistenziale ed umanitario a coloro che ne hanno bisogno, aggiungendo però «che tutto il resto se ne dovrà andare via». 

Il Capitano della Humanity 1, Joachim Ebeling, si è rifiutato di lasciare il porto di Catania, appellandosi al diritto internazionale. «Everyone has a right to disembark and we expect everyone can disembark». Tutti hanno il diritto di sbarcare. In effetti il decreto non è in regola con ciò che prevedono le norme internazionali. Le convenzioni e le risoluzioni sul soccorso marittimo sanciscono che un soccorso finisca solo quando la nave attracca in un porto sicuro, inteso come prossimità geografica e come tutela dei diritti umani. Questo avviene a prescindere dalla zona SAR (Search and Rescue) di competenza e dalla bandiera battuta della nave. Nel caso della Humanity 1 e della GeoBarents: Catania. In più, così facendo l’Italia viola le norme concernenti il diritto a chiedere asilo. Impedendo ad alcune persone di scendere dalla nave e richiedere la protezione internazionale, il governo italiano attua un respingimento collettivo, ovvero un allontanamento indiscriminato, contrario all’articolo 4 del Protocollo 4 della CEDU. Già nel 2012, l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi c. Italia per aver riportato 200 persone in Libia indiscriminatamente senza permettere loro di poter chiedere asilo politico. Evidentemente non ha ancora imparato dai propri errori. 

Tornando al caso in questione, l’8 novembre il calvario si è concluso: sono potuti sbarcare tutti. I medici hanno valutato che a causa di una situazione ad “alto rischio psicologico” che si stava verificando a bordo delle due navi era necessario far scendere anche le persone rimanenti. Difatti dopo non esser stati “selezionati”, tre persone sulla GeoBarents hanno tentato di buttarsi in acqua per disperazione e gli altri sono caduti in preda alla depressione. Convulsioni, qualcuno che sviene, reazioni all’angoscia sulla propria condizione. «You cut my dreams». Avete ucciso i miei sogni. Echeggia la voce di accusa di un uomo. Un grido che si rivolge contro di noi, i privilegiati che possono decidere sulla sua vita. 

La propaganda che passa sulla pelle delle persone

«Non sono naufraghi, sono migranti» ha dichiarato Giorgia Meloni, definendo “bizzarra” la decisione dei medici di permettere lo sbarco. La sua frase fa eco ai termini usati dal ministro Piantedosi e dagli altri membri del suo governo: “carico residuale”, “sbarco selettivo”, “tutto il resto”. Sono termini disumanizzanti che mascherano la realtà umana, le persone in carne ed ossa, sotto delle parole tecniche ed astratte. Così i “migranti” diventano coloro che minacciano l’ordine e la sicurezza, che portano problemi e, in fondo, sono un po’ tutti terroristi. I “clandestini” sono quelli che ci rubano il lavoro e creano criminalità nelle nostre città e le nostre coste devono affrontare da sole “l’emergenza degli invasori”. L’odio si crea con l’uso delle parole, plasmando le menti, rendendole assuefatte alla violenza e all’intolleranza.

La politica italiana ha spesso utilizzato le retoriche anti-immigrazione per conquistare il favore popolare. In prima linea la destra che ha fatto del suo mantra “legalità e sicurezza” le proprie parole d’ordine, criminalizzando coloro che hanno cercato di arrivare in Italia alla ricerca di un futuro migliore. Negli anni ’90 si parlava di “Emergenza clandestini” e di conseguenza nel 2002 è stata approvata la legge Bossi-Fini e il reato di clandestinità. Oggi si parla di “invasione” e nel 2018 sono stati varati i Decreti Sicurezza, che ora il governo Meloni vorrebbe ripristinare. 

Tuttavia anche la sinistra non è esente da colpe. Nel 2017 il governo Gentiloni ha firmato il memorandum d’intesa Italia – Libia, che ancora oggi resta in vigore. L’accordo prevede una cooperazione fra lo Stato italiano e la Libia in materia di contrasto all’immigrazione, in linea con la procedura di esternalizzazione delle frontiere promossa dall’UE. Semplificando, viene istituita una zona SAR libica e vengono dati fondi, mezzi e sostegno alla cosiddetta “guardia costiera libica”. Peccato che in Libia non esista nessuna guardia costiera e che di conseguenza da più di cinque anni l’Italia stia finanziando trafficanti e criminali per fermare gli arrivi sulle proprie coste. Un esempio è la storia del trafficante Abdul Rhaman Milad, detto Bija: selezionato come membro della guardia costiera libica come interlocutore per l’Italia nel 2017 e allo stesso tempo indagato dalle Nazioni Unite come figura di riferimento all’interno di una fitta rete di traffico di carburante ed esseri umani. L’accordo con la Libia crea un sistema di “delocalizzazione della tortura”: l’Italia blocca le persone in un Paese terzo che non rispetta i diritti umani pur di non farli arrivare sulle coste europee. Gli invisibili nell’inferno libico. 

Alla disumanità della politica la società civile ha cercato di rispondere. ONG e navi umanitarie, con personale composto soprattutto dai giovani, si sono fatte largo nel Mediterraneo per proporre una visione del mondo alternativa, in cui l’umanità viene soccorsa invece che abbandonata alla morte. Un tentativo ostacolato nuovamente dalla politica italiana. “Taxi del mare”, “navi pirata” sono solo alcune delle espressioni usate. La propaganda di criminalizzazione delle navi umanitarie ha coinvolto l’intero spettro politico in uno squallido tentativo di lucro dei consensi pre-elettorali. Le persone, seviziate e rinchiuse in Libia o annegate nel Mediterraneo, sono il prezzo da pagare.

Gerarchie di vite 

«Il mondo è ingiusto. Ma io cosa ci posso fare? Ho pensato che non ci avrei più fatto caso talmente ce ne sono. In realtà non contano niente. Soprattutto i neri. Non esistevano da vivi, esistono ancora meno da annegati. Scaricati dai loro paesi, scaricati dai battelli e per finire scaricati dalle statistiche. Un esercito di fantasmi».

 Questo brano è preso dalla “Pesca del Giorno”, un dialogo di Eric Fottorino che narra l’incontro fra un pescatore ed una viaggiatrice sulle coste di Lesbo. È un racconto doloroso, che fa male e deve far male perché ci fa scontrare con la brutalità di ciò che avviene nel Mediterraneo: le persone annegano e l’Europa se ne frega. 

Perché un giovane europeo può spostarsi per cercare lavoro, mentre se lo fa un giovane africano viene additato come “migrante economico” e lasciato morire in mare? Quali sono i parametri che sanciscono che un ucraino possa ottenere una veloce procedura speciale di accoglienza e un togolese o un sudanese no? Chi decide cos’è la vulnerabilità? La selezione estrema imposta dal governo italiano e il successivo “tira-e-molla” tra Francia e Italia per concedere un porto all’Ocean Vikings hanno messo in luce questo: una violenza insita all’interno dei confini europei nel decretare chi è “meritevole” e chi invece no.

«A malapena ci si dà la pena di contare gli annegati se sono neri. Passano al disotto dell’inventario. Sono diventati una specie di angolo morto. Niente da fare. Niente da dire. Senza che ci siamo messi d’accordo, in silenzio siamo diventati dei mostri».

Abir, 22 anni, un foglio in mano e uno sguardo serio. Un’etichetta appiccicata addosso: “Carico residuale”. La fredda indifferenza delle parole. Rifiutiamoci di essere dei mostri. 

Editing a cura di Claudio Annibali