La perpetua fine dell’Occidente: da New York a Kabul
La perpetua fine dell’Occidente: da New York a Kabul

La perpetua fine dell’Occidente: da New York a Kabul

La perpetua fine dell’Occidente: da New York a Kabul

L’Occidente è crollato, di nuovo: la “civiltà” occidentale ha fallito la sua secolare missione di esportare i propri valori e il proprio modus vivendi nel mondo. Teatro di questa apocalisse culturale è oggi l’Afghanistan, riconquistato in una vera e propria blitzkrieg dalle forze talebane dopo 20 anni di presenza occidentale nel Paese. Esposta così, si potrebbe davvero parlare di disfatta collettiva sotto innumerevoli punti di vista: militare, strategico, e politico (tra i tanti).

La Fine della Civiltà: Roma, Costantinopoli… e Kabul

Chiunque conservi una piccola memoria delle lezioni di Storia delle superiori si ricorderà sicuramente di altri momenti “apocalittici” per la fine della nostra civiltà: il Sacco di Roma (410 d.C.) o la caduta/presa di Costantinopoli (1453), passando anche per lo sgretolamento dei sistemi coloniali (vere e proprie istituzioni della “missione” occidentale), o ancora l’ascesa dell’Asia nel secondo Dopoguerra. Gran parte di questi eventi hanno però un comune denominatore: in tutte queste catastrofi, gli “sconfitti” risultammo essere proprio noi! Un fatto che dovrebbe far molto riflettere: perché non si parla di “crollo della civiltà cinese” dopo la vittoria britannica nella Guerra dell’Oppio (1839-1842 e 1856-1860) che obbligò l’Imperatore a sottostare alle ingerenze europee? Perché (e forse a maggior titolo) non si parla di “apocalisse giapponese” in occasione del bombardamento nucleare e della conseguente occupazione militare statunitense del Paese? Perché in quelle occasioni erano gli “altri” a dover vedersi imporre condizioni e stili di vita stranieri. Eppure oggi vediamo che ambedue i Paesi presi ad esempio hanno saputo non solo sopravvivere a tutto ciò, ma si sono anche proiettati sulla scena internazionale come potenze mondiali, dimostrando che ci può essere un futuro dopo la tragedia.

Il predominio dell’Occidente Europeo, conquistato con la forza delle armi e delle idee, dopo la Seconda Guerra Mondiale ha ceduto il passo a quello statunitense conservandone però lo spirito di assoluta giustezza del proprio operato e di assoluta necessità per le sorti del mondo civilizzato: la Guerra Fredda, lo scontro tra le due Coree, e il pantano vietnamita, testimoniano la sopravvivenza di questa mentalità. Il silenzio e la connivenza dell’Europa, invece, certifica ancora la condivisione di questi ideali anche nel Vecchio Mondo.

I fatti di oggi ci mettono di fronte alla eventualità, tanto rara quanto traumatizzante (per noi), che i vincitori possano essere gli altri e che le sorti dei conflitti non vadano secondo le nostre speranze. La vittoria talebana a Kabul non è il risultato di una punizione divina contro l’Occidente, né tantomeno un presagio per la fine del mondo, ma il risultato di un lavoro di pianificazione e riorganizzazione da parte dei talebani da una parte, e del limitato successo del lavoro di state building da parte delle forze occupanti dall’altra. Senza dimenticare il ruolo giocato dagli stessi Stati Uniti in questa rinascita talebana. Ma come possiamo metabolizzare questa debacle? Supereremo anche questa “fine dell’Occidente”?

La Guerra è Caos

Bisognerebbe anzitutto accettare il fatto che, dopo quel lontano 11 settembre 2001, l’Europa si è ritrovata trascinata all’interno di una “guerra santa” contro un nemico tanto pericoloso quanto sfuggevole: un’ideologia e una tecnica di combattimento. Il terrorismo è proprio questo: una forma estremizzata di guerriglia che ben si adatta alle nuove tecnologie del mondo contemporaneo, facendone ricorso esso stesso.

Come tutte le ideologie, inoltre, è estremamente difficile da identificare ed isolare: avrebbero dovuto saperlo bene a Washington dopo la lunga battaglia dichiarata al comunismo asiatico, ma la tentazione fu semplicemente troppo forte per il presidente Bush, il quale dichiarò l’inizio di un’offensiva militare in Medio Oriente per combattere non solo gli architetti delle stragi, ma persino estirpare il seme del terrorismo religioso in quelle terre.

Gli alleati della NATO, come sappiamo, furono approcciati con poche domande e molte richieste a prendere parte a questa nuova crociata moderna contro “le forze del Male”. Altrettanto poche furono, evidentemente, le soluzioni ideate per poter far rinascere davvero quei Paesi (Afghanistan, Iran, e Iraq in testa) una volta tolti di mezzo i vari Bin Laden o Saddam Hussein: ad un governo locale autoritario se ne sostituì uno straniero spesso vittima di corruzione, che prometteva il futuro a chi interessava il presente. Il che non ha fatto altro che aumentare i malumori tra la popolazione, permettendo alle frange più estreme di riorganizzarsi nelle periferie e di raccogliere nuovi seguaci figli della disorganizzazione occidentale.

D’altro canto, l’Occidente sembra essersi dimenticato che la guerra, in tutta la sua vastità, non è altro che un Vaso di Pandora capace di liberare le forze più diverse e che molto raramente si sviluppa secondo le previsioni degli esperti. Quante persone infatti avrebbero previsto una ritirata lampo dal Paese a metà agosto? Il presidente Biden aveva pianificato un ritiro entro metà settembre, ma alla fine si è giunti con un l’esercito NATO in piena ritirata sui pochi aerei rimasti disponibili e con la popolazione civile -collaboratori e non- che ha letteralmente preso d’assalto l’aeroporto di Kabul, arrivando persino ad attaccarsi allo scafo degli aerei in partenza.

L’immagine del fallimento Occidentale è probabilmente qui, e non nella ritirata in sé: la fragilità del nuovo Stato filo-occidentale afghano si è ritorta contro i suoi stessi fautori, rivelandosi una fortezza di carta di fronte all’avanzata talebana; ma, di fronte a questo evento, la coalizione capitanata dagli Stati Uniti ha comunque deciso che non si sarebbe sparso altro sangue occidentale nel nome della sicurezza, dei diritti e della democrazia dell’Afghanistan. Da quel 15 agosto in poi il mondo sembrava avviato verso il baratro, condannato dalla superpotenza fondamentalista. Lo scacchiere sembrava essere tornato a quel 12 settembre 2001: da una parte l’Occidente ferito e dall’altro l’Oriente estremista in trionfo. Eppure qualcosa è cambiato e lo si è visto già in occasione degli attacchi suicida all’aeroporto di Kabul all’indomani della vittoria Talebana: l’Isis-K, una frangia dissidente del più ampio gruppo terroristico, ha rivendicato l’attacco omicida (più di 200 le vittime) in quanto ostile ai nuovi signori dell’Afghanistan; dall’altra parte, inoltre, vi sono i ribelli del Panjshir che hanno giurato di combattere i talebani. Ed è in occasioni come queste che ogni semplificazione viene a galla: chi è il “cattivo” da combattere in questo nuovo contesto? I talebani con i quali gli Stati Uniti hanno stretto un accordo a Doha nel febbraio 2020 per la riconsegna del Paese e che ora sembrano violare gli accordi di tolleranza e pacificazione, o gli altri estremisti a loro opposti? O ancora: che ne sarà delle forze di opposizione nel Panjshir? Andrebbero supportate o no? Questi interrogativi ci trascinano davanti al dilemma circa il riconoscimento o meno del nuovo governo talebano (che dovrebbe insediarsi proprio l’11 settembre, sic transit gloria mundi…): mentre Cina e Russia hanno mantenuto le proprie diplomazie nel Paese e avviato un dialogo con i talebani, qualsiasi decisione prenderà l’Occidente danneggerà qualcuno dentro l’Afghanistan. Con l’affidabilità e la forza statunitense sempre più in crisi, Paesi come Taiwan (conteso tra due mondi) temono di venire sacrificati sull’altare del male minore così come è già capitato ai curdi in Siria o alla resistenza in Afghanistan. Con l’Unione europea ormai impegnata a bisticciare con sé stessa su tutto, le potenze asiatiche potrebbero dare fondo alle proprie diplomazie per poter ampliare le rispettive aree di influenza economica e militare.

Tra le tante sfide che Kabul porrà al mondo, ci sarà il riconoscimento o meno del nuovo governo. In palio ci sono solo potenziali casus belli: la posizione strategica del Paese, il rispetto dei diritti umani invocati dalla popolazione, le risorse economiche ed il potenziale commerciale dell’Afghanistan, oltre che il timore per il ritorno del fondamentalismo e del terrorismo. Il non riconoscimento del nuovo governo spingerebbe quest’ultimo verso le braccia aperte delle superpotenze asiatiche e, probabilmente, creerebbe ulteriori punti di affinità tra il tradizionalismo talebano e i fondamentalisti; potrebbero inoltre esservi ritorsioni sulla popolazione, usata come valvola di sfogo per le frustrazioni politiche, con persecuzioni e segregazioni. D’altro canto, un riconoscimento formale, significherebbe la sconfitta morale della missione “civilizzatrice” occidentale in quelle terre, demolendo la speranza di quei collaboratori e cittadini afghani che ci avevano creduto; significherebbe, inoltre, l’ammissione del fallimento dell’occupazione del Paese, mostrando così una debolezza strutturale che alletterebbe sia i suoi partners che i suoi rivali. Nel mezzo di queste forze internazionali vi è la popolazione civile che non solo ha dovuto fare i conti con le inefficienze del governo filo-occidentale, ma ha anche assistito alla “Dunkerque del Medio Oriente” che li ha lasciati alla mercé di vecchi governanti che non hanno mai perdonato il sostegno dato agli infedeli occidentali.

Il dialogo con il nuovo governo (riconosciuto o meno) è invece qualcosa che bisognerebbe avviare quanto prima, qualora non si avessero altre intenzioni belliche: che sia per cercare di sottrarre Kabul alle avances sino-russe, o che sia per cercare di aprire una breccia nel tradizionalismo talebano riguardo i diritti delle donne. Un dialogo con i vincitori, una linea rossa per tentare una comunicazione (anche disperata), deve esistere. L’alternativa delle sanzioni economiche hanno già ampiamente dimostrato, a Cuba o Venezuela, come queste finiscano col colpire la popolazione piuttosto che le élites, rafforzandone paradossalmente il potere e l’immagine. Solo con un paziente lavoro diplomatico si possono assicurare corridoi umanitari e maggiori garanzie per i cittadini, soprattutto dopo che la soluzione militare si è rivelata inefficace.

L’Età “in diretta” (o Live Age)

Ad esclusione dei più piccoli, chiunque fosse vivo quell’11 settembre 2001 si ricorderà esattamente il momento in cui ha realizzato quello che stava accadendo a New York. La forza di quelle immagini, di quei video amatoriali, va ben oltre qualsiasi parola possa esprimere o concettualizzare: dopo quelle ore, il mondo era già cambiato per sempre. Al di là della Guerra al Terrore già menzionata, al di là delle restrizioni di sicurezza adottate e imposte dai governi in tutto il mondo (e in vigore ancora oggi!), in quella data il mondo ha assistito quasi in diretta allo svolgimento degli eventi in tutta la loro drammaticità: probabilmente per la prima volta nella storia, enti di informazione e cittadini si ritrovavano ad osservare le medesime scene con le medesime poche informazioni. Gran parte del materiale visivo che ancora oggi è impiegato per mostrare l’accaduto proviene da privati cittadini che si trovavano lì in quel momento. Quella mattina, a Manhattan, si concentrarono diversi fattori che portano chi scrive a considerare tale evento uno spartiacque tra due Età storiche: tempistica, bersaglio, volume, risonanza.

Per “tempistica” si intende la scelta di colpire in pieno giorno e nel momento forse più propizio per stragi di massa con mezzi ordinari, ovvero in mattinata, quando tutte le città del mondo vivono il loro consueto caos che trasporta tutti ai propri doveri. In pieno giorno, inoltre, tutti possono vedere: dunque l’attacco non è solo frontale, bensì plateale. Il “bersaglio” era niente di meno che la super potenza del tempo: colpire l’occhio del gigante per abbattere l’intera creatura, ovvero colpire gli Stati Uniti per mettere in crisi l’Alleanza Atlantica e gli altri amici di Washington nel mondo. In molti vi hanno visto un parallelismo con l’attacco giapponese a Pearl Harbour (un altro “giorno che vivrà nell’infamia”) del 7 dicembre 1941, ma sebbene il “volume” delle perdite umane sia in ambedue i casi ben oltre le 2000 vite, la situazione geopolitica era assai diversa: nel 1941 gli Stati Uniti temevano un attacco giapponese e la diplomazia era ancora al lavoro per salvare la situazione quando il bombardamento iniziò nelle Hawaii. Non va inoltre dimenticato che, nel frattempo, in Europa e in Asia le potenze dell’Asse sembravano già destinate a spartirsi il mondo. Nel 2001 non c’era nulla di tutto questo e ciò è anche la ragione per la quale la “risonanza” dell’attacco kamikaze dell’11 settembre non si è esaurita con la morte di Bin Laden ma vive ancora con/in noi: l’inizio della Guerra al Terrore da parte degli Stati Uniti, negli anni, ha riportato in vita lo Stato d’Eccezione.

Questo termine indica la particolare condizione di un territorio all’interno di un dato Stato nella quale le caratteristiche dello Stato di diritto sono sospese o condizionate. L’esempio più famoso è quello della prigione di Guantanamo Bay, dove i detenuti non godevano di alcun diritto nonostante le norme statunitensi ed internazionali in materia. Il concetto dello stato d’eccezione statunitense, sviluppatosi attraverso le riserve per i nativi e i ghetti per gli ex-schiavi, ha trovato grande successo in quei Paesi autocratici che necessitavano di una nomenclatura “politicamente corretta” per portare avanti le proprie pulizie etniche o distruggere ogni resistenza al loro potere (si pensi alla Siria, alla Cina, o alla Russia): oggigiorno, la parola “Terrorismo” ancora evoca le più recondite paure dell’animo, riportando molti a quell’11 settembre. Sotto lo scudo della “Guerra al Terrorismo”, però, si compiono stragi silenziose accolte spesso con ignorante gioia.

L’Età Contemporanea (Europea e non), indipendentemente da dove la si voglia far iniziare, fu segnata dal macabro connubio tra scienza e guerra, oltre che tra democrazia e povertà, e gran parte del restante ‘900 tentò di superare la “risonanza” (o eredità) di quegli eventi, provando a non crearne di nuovi (vedasi, ad esempio, la crisi di Cuba); l’11 settembre 2001, tuttavia, ha spalancato la porta di un nuovo connubio tra tecnologia e realtà. Da allora il mondo ha tentato di essere sempre più “in diretta”, o “live”, e ognuno si è riscoperto potenziale protagonista-narratore di eventi o notizie che prendevano forma davanti ai suoi occhi; nessuna altra epoca storica ha goduto del privilegio di poter sempre sapere cosa accade nel mondo a distanza di soli pochi minuti (se non secondi!). Sono passati solo 20 anni dal 2001, ma è già certo che solamente un cataclisma di portata mondiale può interrompere (o cancellare) l’ascesa di questa nuova stagione del mondo. È forse paradossale, ma sono proprio le generazioni nate successivamente all’11 settembre ad esserne [state] maggiormente influenzate.

In conclusione, torniamo alla “Breaking News” d’apertura: è crollato l’Occidente. Adesso è forse più chiaro a chi legge come vi siano temi ben più importanti sul tavolo della politica internazionale rispetto ad una presunta fine della nostra cultura. Il rimedio proposto indirettamente in queste righe è quello di continuare ad informarsi e ad approcciare criticamente gli avvenimenti, per quanto possibile, senza lasciarsi trascinare da isterie collettive in stile Anno Mille (peraltro una falsa leggenda sul Medioevo!) o farsi inghiottire dal fuoco di rigide ideologie. La politica spesso si trova davanti a scelte che trascendono la nostra sensibilità di “giusto” e “sbagliato”, a volte senza altre soluzioni disponibili. Capire la complessità delle vicende del mondo è probabilmente il primo passo per capire che l’Occidente non può svanire in un mese, così come non può sempre vincere. Sull’esempio del sacrificio dei soccorritori di New York, che sfidarono una crisi fuori da ogni manuale d’addestramento con coraggio e sangue freddo, tentiamo di approcciarci ai fatti del mondo nella stessa maniera.