Il caso Biles e la salute mentale nello sport
Il caso Biles e la salute mentale nello sport

Il caso Biles e la salute mentale nello sport

Il caso Biles e la salute mentale nello sport

Sembra che a Tokyo, nelle Olimpiadi della pandemia, tutto sia possibile. Dall’incredibile condivisione dell’oro nel salto in alto tra l’azzurro Gianmarco Tamberi e il qatariota Mutaz Essa Barshim, al ritiro dalle competizioni della ginnasta uzbeca Oksana Chusovitina (al conto di ben otto partecipazioni ai Giochi) passando per la potenza dell’immagine dell’ingelese Tom Daley che ci libera da anni di mascolinità tossica, spesso esasperata nello sport, semplicemente lavorando a maglia dopo essersi assicurato un oro come tuffatore.

Dall’altro lato, però, ci sono anche pesanti zone d’ombra. La questione palestinese è arrivata fino in Giappone, con il judoka algerino Fethi Nourine che si ritira pur di non affrontare l’israeliano Butbul, mentre risulta ormai chiaro che il delirio di onnipotenza del dittatore bielorusso Alexander Lukashenko non conosce confini territoriali. In una Tokyo così divisa, tra picchi di grandezza sportiva e personale e baratri che fanno dubitare della capacità dell’umanità di redimersi, spicca sicuramente la storia di Simone Biles.

La vicenda di Simone Biles

Che l’attività sportiva sia di beneficio alla salute mentale è ormai conoscenza condivisa. Quale sia la natura del rapporto inverso, però, non è ancora chiaro. In questo senso, il parziale ritiro dalle competizioni di Simone Biles, plurimedagliata ginnasta statunitense, dello scorso 27 luglio è un’occasione per cercare di fare un po’ di chiarezza. Durante la conferenza stampa seguita alla decisione di non esibirsi a corpo libero- suo cavallo di battaglia- Biles ha confessato di sentire una forte pressione: «Dovremmo essere qua fuori a divertirci e, alcune volte, questo non succede».

La decisione della ginnasta, come era prevedibile, ha diviso ancora di più un’opinione pubblica di per sé già polarizzata: se, da un lato, in tantissimi hanno espresso il proprio supporto all’atleta, primo fra tutti il nuotatore Michael Phelps, che spera che questa sia «un’occasione che possa aprire gli occhi, un’opportunità per salire a bordo e persino far diventare la questione della salute mentale un caso ancor più ampio»; dall’altro lato non si sono risparmiate critiche, specialmente da parte del giornalista inglese Piers Morgan, che ha intitolato il suo articolo per il Daily Mail: “Scusa Simone Biles, ma non c’è niente di eroico o coraggioso a mollare perché non ti stai ‘divertendo’ – stai deludendo i tuoi compagni, i tuoi fan e il tuo Paese”.

E se la risonanza mediatica sul caso Biles è certamente ingigantita dalla portata dell’evento e della protagonista, non è tuttavia il primo caso in cui la salute mentale degli atleti finisce in prima pagina. Il sopracitato Michael Phelps ha avuto problemi di depressione, ansia e abuso di sostanze e da anni combatte per il riconoscimento dell’importanza del benessere psicologico negli sportivi; recente è anche il caso della tennista Naomi Osaka, ritiratasi dal torneo tennistico Roland-Garros (uno dei quattro tornei del Grande Slam) lo scorso giugno proprio per concentrarsi sulla sua salute mentale in vista dei Giochi di Tokyo.

Che cosa ci dice la psicologia?

Sono pochi gli studi sistematici su come l’attività sportiva, a livello agonistico, influenzi la salute mentale degli atleti. Alcune ricerche sembrano suggerire che troppo allenamento sia correlato addirittura ad un aumento del rischio di sviluppare disturbi dell’umore (come ansia, depressione e attacchi di panico) e disturbi dell’alimentazione. Accanto a ciò, si pone anche la questione della mancata ricerca di un aiuto professionale: uno studio australiano ha evidenziato che molti giovani sportivi non cercano aiuto psicologico a causa dello stigma che spesso lo accompagna, per cui competere a livelli agonistici richiederebbe un grado di “tenacia mentale” tale da non potersi sposare con una possibile difficoltà psicologica. Inoltre, manca un focus mirato sulla salute mentale: grandi passi sono stati fatti sul fronte del benessere fisico degli atleti, con programmi di nutrizione e allenamento tarati sul singolo, ma niente di tutto ciò è accaduto per la sfera psicologica, duramente messa alla prova da intensi allenamenti, seri rischi di infortunio e anche possibili performance fallimentari con cui gli sportivi devono fare i conti.

Che cosa fare, dunque? Primi passi nella direzione del riconoscimento dell’importanza della salute mentale sono stati fatti con la pubblicazione, nel 2019, dell’International Olympic Committee consensus statement, in cui si cercano di tracciare le prime linee guida per affrontare il delicato tema della salute mentale degli atleti. Al contempo altre associazioni si stanno interessando a questo tema, come la National Collegiate Athletic Association (NCAA) negli USA, che sta sviluppando specifici interventi volti a migliorare il benessere psicologico degli studenti/atleti.

Tanti passi sono ancora necessari affinché il benessere psicologico degli sportivi sia tenuto in considerazione tanto quanto quello fisico, ma il coraggio che atleti come Simone Biles dimostrano nel riconoscere pubblicamente il problema è quello che serve per iniziare a camminare nella giusta direzione.