Rape culture: La CEDU condanna l’Italia
Rape culture: La CEDU condanna l’Italia

Rape culture: La CEDU condanna l’Italia

Rape culture: La CEDU condanna l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), con una sentenza storica, condanna l’Italia per stereotipi sessisti. Nonostante l’ordinamento italiano vanti norme interne e soprattutto di diritto internazionale che salvaguardano i diritti delle donne, la CEDU si è finalmente accorta che i diritti umani per le donne vengono continuamente violati all’interno delle nostre stesse Corti.

Il Caso Fortezza

Il caso riguardava una denuncia per stupro di gruppo, subito da una ragazza di 22 anni nel 2008 nella Fortezza da Basso di Firenze. Nel processo di primo grado, sei dei sette ragazzi coinvolti erano stati inizialmente condannati nel 2013, ma la Corte d’Appello due anni dopo aveva ribaltato completamente la sentenza, assolvendo pienamente i ragazzi per insussistenza del fatto, poiché i giudici avevano dubitato della credibilità della ragazza. Motivando la decisione, la Corte aveva definito la vittima come soggetto fragile ma al tempo stesso disinibito, a causa della sua bisessualità e per aver avuto dei rapporti occasionali. Non soddisfatti, i giudici avevano sostenuto che la ragazza avesse preso la decisione di denunciare solo per liberarsi da un suo stesso «momento di fragilità e debolezza».

La condanna CEDU

A questo punto è la stessa vittima a chiamare in causa la CEDU, chiedendo al giudice sovranazionale di esprimersi non sull’assoluzione degli imputati ma sul contenuto stesso della sentenza.

L’intervento della Corte di Strasburgo condanna i giudici italiani che hanno assolto i sette giovani dall’accusa di stupro di gruppo, dichiarando che «il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’Appello trasmettono pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e che possono costruire un ostacolo alla tutela effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere».

Secondo la CEDU, inoltre, l’Italia è in violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che concerne la vita privata e intima della persona. In base a ciò, i giudici italiani avevano omesso di proteggere la donna dalla c.d “vittimizzazione secondaria”, ovvero hanno di fatto trasferito la responsabilità dello stupro a suoi comportamenti e, così facendo, avevano dato giustificazione alla violenza sessuale. Le autorità giudiziarie devono evitare di riprodurre stereotipi di genere, in modo da non scoraggiare le vittime di violenza ad avere fiducia nelle istituzioni. Di conseguenza, la Corte ha stabilito che alla denunciante spetta un risarcimento di 12 mila euro per danni morali.

L’avvocata Titti Carrano che ha seguito il caso, presidente dell’associazione D.i.Re (Donne in Rete contro la Violenza), ha poi auspicato che questa decisione così importante venga accettata dal governo italiano, al fine di mettere in pratica attività di prevenzione e educazione degli operatori giudiziari.

Alcuni dati

Perché questo episodio è così importante? Secondo le ultime indagini Istat, i reati di violenze sessuali, comprese quelle di gruppo, costituiscono un dato piuttosto costante. Si rivela che gli imputati sono soprattutto maschi di origine italiana (il 60%).La contraddizione sta proprio nel fatto che sul totale degli imputati per i quali inizia l’azione penale per reati di stupro, nel 68,4% dei casi è disposta l’archiviazione, mentre per la violenza di gruppo la percentuale è del 54,2%.

Pertanto, le statistiche confermano quanto predisposto dalla Corte EDU, cioè che il nostro sistema giudiziario garantisce essenzialmente chi abusa e non chi subisce, per colpa di una cultura ancora volta a oggettivizzare e colpevolizzare la donna a vantaggio di uomini che per la maggior parte restano impuniti.