Ecofemminismo e Green Deal
Ecofemminismo e Green Deal

Ecofemminismo e Green Deal

Ecofemminismo e Green Deal

Qual è la correlazione tra cambiamenti climatici e femminismo? Benché appaiano due temi piuttosto distanti tra loro, l’ecofemminismo mira a fare da ponte tra diversi macro-temi che riguardano sia la giustizia sociale che quella climatica. Il Green Deal europeo, tuttavia, come dimostrato dal rapporto dell’ European Environmental Bureau (EEB) continua a trascurare questo aspetto. Le disuguaglianze di genere sono ancora una costante del nostro pianeta, ed è innegabile che le categorie più marginalizzate siano anche quelle più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici. Inoltre, le politiche climatiche – come già detto più volte anche in altre occasioni – non tengono conto delle istanze dei giovani, che, più di tutti, saranno chiamati ad agire nei prossimi decenni. Nei fatti, insomma, le politiche non allineate con il movimento ecofemminista rischiano di compromettere il futuro di tutt*, ancor di più se si considerano le fasce d’età più giovani.

Ecofemminismo: tra specismo, giustizia sociale e ambientalismo

L’ecofemminismo mira a trovare un terreno comune tra animalismo, femminismo e ambientalismo. Metterlo in pratica, però, risulta alquanto complicato, dal momento che le disuguaglianze di genere sono ancora estremamente marcate e che la pandemia non ha fatto altro che intensificarle. Al contempo, il greenwashing sembra essere diventata una prerogativa tanto delle multinazionali quanto degli Stati, diventando sempre più difficile da identificare. Inoltre, è evidente come le minoranze siano ancora ostacolate: è il caso dell’imbarazzante dibattito attorno al DDL Zan, ma anche degli episodi di abilismo nei contesti istituzionali, solo per citarne alcuni. 

Un passaggio del rapporto che merita senz’altro una menzione speciale è il seguente:

In termini di rappresentazione, il settore ambientale è lontano dall’essere equo o inclusivo, riflettendo la scarsa partecipazione delle donne in politica.

“Why the European Green Deal needs ecofeminism”, EEB.

La critica principale, in sostanza, è che il Green Deal europeo sia ancora fortemente dominato da una visione androcentrica, mascolina e razzializzata del mondo. I numeri, sotto questo punto di vista, parlano chiaro: in media, nell’UE, le donne rappresentano il 33% dei membri nei Parlamenti dei vari Stati membri, comportando l’assenza di adeguate politiche indirizzate ad esse. L’impossibilità di trovare dati ufficiali su altre comunità marginalizzate dà decisamente l’idea di un’Europa che, per quanto si erga come baluardo dell’inclusività e della “civiltà”, è ancora incapace di fare i conti con il proprio passato-presente colonialista e predatorio. Inoltre, sono moltissimi i gruppi femministi intersezionali che trascurano totalmente questioni come lo specismo, visibile proprio nelle politiche “ambientaliste” europee al cui interno i diritti degli animali non trovano spazio alcuno. Ne sono un esempio le decisioni europee in merito alla denominazione dei prodotti lattiero-caseari vegetali, o il fatto che l’UE sia tra i principali produttori di carne al mondo, mettendo in luce come il “benessere degli animali” esista solo in relazione al consumo umano. Che il consumo di carne e derivati animali non sia compatibile con uno sviluppo sostenibile è ormai appurato, dal momento che l’industria è responsabile di 7 gigatonnellate di emissioni di CO2 ogni anno, oltre ad essere responsabile di disboscamenti e conseguente perdita di biodiversità. 

Serve un Green Deal più ambizioso

Il progetto del Green Deal europeo appare dunque decisamente elastico ed economicamente interessato, specialmente se consideriamo che l’UE ha stilato una tassonomia che stabilisce le condizioni affinché un segmento industriale possa definirsi “sostenibile” e, quindi, ricevere finanziamenti. Tra le varie industrie figurano anche i gas fossili ed il nucleare, mentre fino all’ultimo non sono mancati i dibattiti persino sull’inserimento degli allevamenti intensivi. Insomma, anche in questo, caso il rischio di ritrovarci bombardati dal greenwashing è concreto e non va sottovalutato.

Cambiare solo all’apparenza le regole del gioco serve a poco fino a quando il sistema continuerà a perpetuare le disuguaglianze su ogni livello e nessuno sarà disposto a cambiare le proprie abitudini, che siano alimentari (perpetuando dunque una visione specista del mondo) o, più in generale, dei consumi. L’Europa, così come i Paesi economicamente più avanzati, sono – come già sottolineato – i principali responsabili del disastro ambientale in cui ci troviamo; i cittadini del Nord del mondo sono anche quelli che hanno maggiori strumenti a disposizione per difendersi dagli effetti dei cambiamenti climatici e che hanno, di conseguenza, maggior potere decisionale per far sì che queste regole cambino. Bisogna ridare dignità ad ogni corpo, da quelli degli animali (i cui diritti sono ancora calpestati e persino dibattuti), a quelli delle categorie oppresse, che spesso si ritrovano a lavorare proprio nell’industria agroalimentare e in condizioni inaccettabili.

Implementare l’ecofemminismo è necessario se vogliamo sfidare l’attuale sistema capitalista, basato sullo sfruttamento e il mantenimento dello status quo di chi possiede già ingenti quantità di risorse. Su questo fronte sono proprio le fasce più giovani a farsi promotrici del cambiamento: in media, la percentuale di vegan* appartenenti alla Generazione Z è di gran lunga superiore rispetto a quella delle precedenti, mentre si stima che le donne e le persone nere – specialmente negli Stati Uniti – siano più propense ad abbracciare il movimento. Si tratta di dati interessanti che, per tirare le fila del discorso, sottolineano come sia necessario avere una visione intersezionale del mondo se vogliamo realmente cambiarlo. Per iniziare il cambiamento, tuttavia, dobbiamo essere noi i primi a farlo.

Editing e fact checking a cura di Claudio Annibali