A 20 anni dai fatti di Genova non è cambiato nulla
A 20 anni dai fatti di Genova non è cambiato nulla

A 20 anni dai fatti di Genova non è cambiato nulla

A 20 anni dai fatti di Genova non è cambiato nulla

Quest’anno, tra pochi giorni, ricorre il ventesimo anniversario di quell’evento che passò sotto il nome di “democrazia sospesa”: stiamo parlando dei fatti tragici di Genova avvenuti durante il vertice G8 ospitato dalla città nel 2001 e che ha visto scendere in piazza e scontrarsi forze dell’ordine e manifestanti no-global.

Le giornate tra il 19 e il 22 luglio 2001 sono caratterizzate dal trionfo della violenza; una ferità che, a vent’anni di distanza, risulta ancora aperta e dolorante nel sentito del Paese a causa di alcuni aspetti mai del tutto chiariti.

Il 20 luglio Carlo Giuliani, un manifestante di soli 23 anni, muore in piazza Alimonda. Mentre le forze dell’ordine hanno ormai perso il controllo della piazza, abbandonandosi a cariche indiscriminate contro cortei in grandissima parte formati da pacifisti, il carabiniere Mario Placanica spara due proiettili e Giuliani cade a terra, colpito ma ancora vivo. Sarà la camionetta in cui si trova il militare a finirlo, passando sopra il corpo del ragazzo ben due volte, prima in retromarcia poi in avanti. Nessuno verrà mai condannato per il suo omicidio.

Un altro simbolo indelebile di quanto accaduto in quei giorni rimanda poi agli eventi della scuola Diaz (in cui si erano rifugiati alcuni manifestanti) e di Bolzaneto, definiti “macelleria messicana”. «Quanto accaduto alla scuola e poi continuato qui a Bolzaneto è stata una sospensione dei diritti, un vuoto della Costituzione. Ho provato a parlarne con dei colleghi e loro sai che rispondono: che tanto non dobbiamo avere paura, perché siamo coperti», afferma in un’intervista un poliziotto che prestava servizio al Reparto Mobile di Bolzaneto.

Di seguito, una delle testimonianze di quanto accaduto quel 21 luglio nella scuola Diaz: «Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci. Secondo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio. Le ruppero il polso».

Non è possibile riportare qui tutti gli avvenimenti, le violenze, le brutalità e le torture avvenuti, denunciati e documentati in quei giorni terribili a Genova ma le parole di Amnesty International non lasciano spazio a dubbi circa l’indicibile gravità dei fatti, definiti come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

Nel 2015 La Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) di Strasburgo ha condannato l’Italia per tortura e per le violenze della polizia durante il G8 di Genova ma, a più di 5 anni di distanza, l’Italia non sembra aver imparato la lezione.

Chi controlla i controllori?

Due giorni fa il quotidiano Domani ha diffuso un video che mostra i violenti pestaggi operati dagli agenti penitenziari del carcere di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei detenuti, risalenti a poco più di un anno fa.

Ma andiamo per ordine.

All’inizio di aprile 2020, nel pieno della pandemia, i detenuti del carcere (alquanto malmesso, secondo alcune testimonianze) protestano, inizialmente in modo pacifico, per ricevere mascherine e igienizzanti, in modo da evitare la diffusione del Covid-19 tra le celle. Va specificato, a tal proposito, che un istituto penitenziario, specie se sovraffollato, può rappresentare una vera e propria “trappola” in grado di trasformarsi rapidamente in focolaio di contagio se non vengono prese le adeguate misure. Le richieste dei detenuti, dunque, erano assolutamente legittime, considerando il fatto che il sovraffollamento del carcere impediva effettivamente ogni distanziamento fisico.

Il 6 aprile alcuni agenti di Polizia Penitenziaria (con altri agenti esterni) organizzano quella che viene- da loro stessi- definita una “perquisizione straordinaria generale”. Ciò che si verifica però è una vera e propria mattanza, una rappresaglia ordita per punire i detenuti che hanno osato protestare: sono quattro ore di pugni, schiaffi, manganellate, umiliazioni fisiche e verbali verso detenuti indifesi e spesso ammanettati. Un abuso di potere in piena regola.

Oltre alle testimonianze dei detenuti e ai video recuperati dalle telecamere di sorveglianza, i magistrati hanno raccolto anche prove schiaccianti che riguardano intercettazioni telefoniche scambiate tra gli agenti coinvolti: «li abbattiamo come i vitelli» e «domate il bestiame» sono solo alcune delle frasi intercettate. Ad oggi sono state disposte misure cautelari per 52 agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti ma sembra che il numero di indagati- per vari reati- si aggirerebbe intorno alle 117 persone.

Ora, che sia abuso di potere non c’è dubbio; che sia un gioco al massacro, neanche. Non è il primo episodio in cui un uomo in divisa decide liberamente di violare la dignità di un cittadino, che sia un detenuto o che non lo sia, non è importante. Agire con violenza contro persone disarmate e usare il manganello (che dovrebbe essere utilizzato solo in casi di estrema urgenza) è un atto di disumanità bestiale.

Purtroppo però, a quanto pare, questa versione non è condivisa da tutti e in primis dalle stesse forze dell’ordine. Sarebbe bello che una forte denuncia e indignazione per quanto accaduto venisse da colleghi e vertici di tutti gli organi di polizia in modo da poter presentare ancora– in extremis- la versione delle “mele marce” (52 mele marce?). Invece, tutto al contrario, gli stessi sindacati della Polizia Penitenziaria si sono schierati saldamente a difesa degli agenti indagati, anche dopo la pubblicazione dei video. La stessa cosa che hanno fatto, poi, anche i leader di due tra i partiti politici di maggior successo secondo i sondaggi: la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Per concludere, «il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri», diceva Voltaire. Da Genova a Santa Maria Capua Vetere l’interrogativo resta uno e uno solo: chi controlla i controllori?