Quel mistero chiamato Reddito di Cittadinanza
Quel mistero chiamato Reddito di Cittadinanza

Quel mistero chiamato Reddito di Cittadinanza

Quel mistero chiamato Reddito di Cittadinanza

Il Reddito di Cittadinanza (RdC), introdotto in Italia nel 2019 dal Governo Lega-5Stelle, non rappresenta affatto un unicum nel panorama europeo, anzi. Misure di sostegno simili sono previste in quasi tutti gli Stati dell’UE, in vari casi anche da molto più tempo.

Di certo- così si è detto e si continua a dire- la normativa e la sua esecuzione in Italia avrebbero dovuto essere più accurate, il meccanismo di collocamento nel mercato del lavoro (i famosi “navigator”) più efficiente e i controlli più stringenti. Tutto vero, ma tra la giungla di titoli di giornale e talk televisivi; tra un “furbetto del RdC” e un “incentivo per restare sul divano” abbiamo forse perso di vista la battaglia di civiltà dietro quella tessera gialla, il vero senso di un reddito di base. Anzi, in realtà forse non ci siamo neanche avvicinati al comprenderlo davvero e a capire perché dovrebbe essere universale e incondizionato.

Ma andiamo per gradi.

La narrazione del Reddito di Cittadinanza

Continuando a parlare dell’Italia, il Reddito di Cittadinanza, entrato nel dibattito politico come proposta da parte del Movimento 5 Stelle durante la campagna per le politiche del 2018, è diventato in questo modo immediatamente una misura-bandiera e pertanto oggetto di attacco da parte degli schieramenti politici rivali, all’epoca e ancora adesso.

È stato il primo errore.

Luigi Di Maio, Ministro degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale

In questo modo si è privato il dibattito pubblico della trasparenza e dell’onestà che un tema di portata potenzialmente gigantesca sul piano sociale porta con sé. Sovrapponendo infatti la misura alla formazione politica che se ne fa portatrice si ottiene solamente l’effetto di alimentare un meccanismo di demolizione senza effettive basi concrete se non la sterile lotta partitica (più che politica) innescando, nel caso di specie, la narrazione del Reddito di Cittadinanza come “paghetta per rimanere sul divano”. Non solo: questo stesso tipo di narrazione è in realtà la causa proprio di tutte quelle distorsioni (chiamate “compromessi”), inefficienze e fallimenti a cui assistiamo oggi sul Reddito di Cittadinanza. La verità è che dovremmo aprire un dibattito/dialogo su un reddito di base universale e incondizionato.

Basic income: superare la condizionalità

Quando parliamo di basic income (reddito di base) si fa riferimento ad un «trasferimento monetario finanziato con la fiscalità generale, erogato da un’autorità pubblica. Si tratta di un reddito su base individuale, che non dipende dalle condizioni economiche dell’individuo e che non presenta esigenze di contropartite. Questo è ciò che rende unico il reddito di base universale». Questa è la spiegazione che fornisce Emanuele Murra, ricercatore, docente di storia e filosofia e vice presidente del centro studi Demostene, in un illuminante articolo scritto da Alberto Puliafito e Pasquale Ancona su Slow News dal titolo eloquente: “Perché abbiamo bisogno di un reddito di base universale e incondizionato”.

La conclusione a cui arriva Murra, attraverso un percorso fatto di notevolissime pubblicazioni accademiche sul tema, è che il reddito di base non deve richiedere contropartite (come ad esempio la ricerca di un lavoro o la formazione obbligatoria) ma deve basarsi unicamente sul fatto di essere cittadini di uno Stato.

Il principio cardine è garantire a tutti una tutela economica minima e dunque proteggere ogni cittadino da quegli imprevisti e da quelle condizioni che ne minano la libertà e la dignità individuali, con lo scopo di allontanarlo dalla soglia della povertà. Non esiste infatti alcuna legge naturale o divina, ad esempio, che preveda che i giovani debbano “soffrire”, come dice qualche politico, solo perché giovani e dunque fragili e sfruttabili. Come, allo stesso modo, non è scritto da nessuna parte che le persone debbano andare volentieri e col sorriso a farsi sfruttare per paghe da fame quando potrebbero essere protette da strumenti come il reddito di base. Perché sì, è ovvio che, se si hanno le spalle coperte da un meccanismo del genere, difficilmente si accetterà di essere pagati 2,90 euro l’ora, come vorrebbe- ma non dice- qualche altro politico.

Tuttavia, al contrario di come si pensa, o si vuole che si pensi, un reddito di base non incatenerebbe le persone al divano senza fare niente, anzi l’esatto contrario. Se infatti un reddito condizionato (ed è questo il punto debole del RdC in Italia) comporta la perdita del sussidio se si trova un lavoro, difficilmente si deciderà di accettare un impiego con una retribuzione di poco superiore e perdere in più anche le ore di tempo libero; al contrario un reddito di base garantito per tutti incentiverebbe la ricerca di lavoro in quanto le persone si troverebbero motivate e stimolate dalla possibilità di “raddoppiare” eventualmente le proprie entrate. Una narrazione, dunque, completamente opposta rispetto al ritratto che ci viene quasi sempre proposta delle misure di basic income.

Alla componente meramente economica, senz’altro portante nel discorso, andrebbe aggiunta poi una di tipo umano e sociale: le persone guarderebbero al lavoro non più come un mezzo per sopravvivere “costi quel che costi” ma come un modo di espressione della propria personalità e, se possibile, un valore aggiunto. In poche parole, non si vivrebbe più per lavorare.

Un reddito universale, proprio perché erogato a tutti, cancellerebbe lo stigma sociale dell’essere povero e bisognoso d’aiuto. È stato dimostrato, inoltre, che percepire un reddito di base garantito riduca concretamente l’ansia e lo stress e permetta alle persone di vivere una vita più serena e, in definitiva, più felice sentendosi decisamente più padroni del proprio tempo. Più liberi.

Un fallimento di successo: la Finlandia

Seguendo questo filone, è utile dare uno sguardo lì dove i sistemi di welfare sono in genere famosi per essere efficienti e di successo: i Paesi scandinavi.

Il governo del primo ministro Juha Sipilä, in Finlandia, ha sperimentato un reddito di base garantito (circa 560 euro al mese per due anni) nel 2017 e nel 2018. Lo scopo dell’esperimento era trovare modi per rimodellare il sistema di sicurezza sociale in risposta ai cambiamenti nel mercato del lavoro. L’iniziativa ha anche esplorato le modalità per rendere il sistema più potente e più efficace in termini di incentivi al lavoro. Tuttavia, è sul piano del benessere e della salute mentale che l’esperimento ha raccolto i frutti migliori.

L’indagine ha rilevato che i beneficiari di un reddito di base, nonostante il leggero aumento del tasso di occupazione, alla fine dell’esperimento percepivano un miglioramento del proprio benessere. I destinatari avevano meno sintomi di stress, meno difficoltà di concentrazione e meno problemi di salute. Erano anche più fiduciosi nel loro futuro e nella loro capacità di influenzare le questioni sociali. In molti si sono detti più soddisfatti della loro vita e sperimentavano meno tensione mentale, depressione, tristezza e solitudine.

Alla fine, l’esperimento finlandese è stato abbandonato poiché considerato un fallimento sul piano occupazionale (la stessa cosa che ci accingiamo a fare in Italia con il RdC). I dati sulla qualità della vita però parlano chiaro: un reddito garantito migliora il benessere delle persone, si tratta di trovare la formula giusta per renderlo sostenibile ed efficiente.

Ecco, a proposito: come si può sostenere economicamente una misura del genere?

Come si finanzia un reddito di base universale

Senza girarci intorno: alzando le tasse, rimodulandole, ripensandole per effettuare una reale distribuzione della ricchezza aumentando la pressione sulle big company e sui super ricchi. In ogni caso però, i costi per mettere in piedi un sistema di basic income richiederebbero molte meno risorse di quelle messe in campo per un reddito condizionato. Un reddito di base universale, infatti, non necessiterebbe di tutto quell’impianto di monitoraggio dei redditi, selezione dei beneficiari ed erogazione filtrata di cui invece ha bisogno un sistema a reddito condizionato.

La verifica dei destinatari, spiega Emanuele Murra, «si sposterebbe semplicemente a dopo l’erogazione, permettendo di recuperare le risorse da chi non ne ha bisogno attraverso la dichiarazione dei redditi». I soldi però arriverebbero direttamente e in modo tracciabile a tutti e soprattutto a chi ne ha veramente necessità, senza enormi- e costose- impalcature burocratiche. 300 euro al mese per una persona ovviamente non sarebbero sufficienti per vivere ma per una famiglia, la stessa cifra moltiplicata per i suoi componenti, potrebbe essere un aiuto concretissimo.

Una finestra sul mondo

In Europa le stesse istituzioni comunitarie (in primis il Parlamento) si sono esposte a più riprese negli ultimi anni chiedendo l’introduzione da parte degli Stati membri di tipologie sempre più estese di reddito minimo per i propri cittadini, in accordo con il Principio 14 dell’European Pillar of Social Rights (EPSR) approvato anche dalla Commissione.

Ad oggi tale materia rappresenta ancora una competenza esclusiva dei singoli Stati, ragion per cui anche le procedure, i requisiti soglia e le modalità di erogazione dei sussidi variano da Paese a Paese. Tuttavia, a Bruxelles è in corso un dibattito sull’introduzione di un “reddito universale europeo”, sull’onda della cittadinanza europea, spinta con forza dall’iniziativa dei Cittadini Europei.

Anche nel resto del mondo gli esempi e gli esperimenti sul reddito universale sono sempre più diffusi: dal Canada al Giappone e dall’Alaska alla Namibia il reddito di base è stato provato- ed è tuttora sperimentato- praticamente ovunque.

Il Reddito di base e i giovani: il “Contratto d’impegno” francese

Un esempio di ciò che invece non dovrebbe essere preso in considerazione come misura è quella annunciata poco tempo fa dal presidente francese Emmanuel Macron: il “Contratto d’impegno per i giovani”.

Si tratta di una sorta di Reddito di Cittadinanza dedicato ai giovani sotto ai 25 anni che non studiano e non lavorano e possiedono un reddito basso (meno di 497 euro mensili). La misura prevede un reddito fino a 500 euro al mese per coloro che accetteranno di seguire corsi di formazione settimanali con l’obiettivo di «aiutare i giovani senza risorse e senza prospettive» ad inserirsi nel mondo del lavoro. L’erogazione del reddito è subordinato alla frequenza dei programmi di formazione e può essere ritirato nel caso venisse rifiutata un’offerta di lavoro o si interrompa il percorso di formazione.

La misura ha scatenato immediatamente numerose perplessità e polemiche, in Francia e non solo. C’è chi ha visto nel provvedimento una rete “elettorale” per catturare i voti dei giovanissimi in vista delle presidenziali del 2022 ma a ben vedere la criticità principale riguarda ancora una volta la visione dei giovani da parte della classe politica; una visione condivisa a livello europeo e dunque doverosa di una riflessione anche qui in Italia.

Sembra infatti che, nonostante la situazione economica delle giovani generazioni sia condita da dati disastrosi su occupazione, redditi e salari, la politica sia in grado di approcciarsi ai giovani- se e quando lo fa- solamente in maniera assistenzialista. Il “Contratto d’impegno” francese non rappresenta né un esempio di reddito di base universale per i giovani né tantomeno una misura in grado sanare le disuguaglianze e le fratture che negano alle nuove generazioni un ingresso equo nel mondo del lavoro e un ruolo adeguato nella società.

Un reddito di base, universale e incondizionato, così come è stato descritto, potrebbe invece aiutare anche i giovani, tutelandoli, proteggendoli e restituendogli un po’ di quella dignità e di quella libertà che oggi gli è così ingiustamente sottratta economicamente, socialmente e umanamente. Infine, la pandemia ha reso evidente quanto l’introduzione di un reddito minimo universale sia necessario per innescare quel processo di redistribuzione della ricchezza tanto auspicato da tutti ma messo in pratica da nessuno.