La valutazione scolastica: un’azione complessa
La valutazione scolastica: un’azione complessa

La valutazione scolastica: un’azione complessa

La valutazione scolastica: un’azione complessa

Se cercassimo in qualsiasi dizionario la definizione di “valutazione”, troveremmo scritto: determinazione di un valore, applicabile sia ad oggetti materiali (come le monete) che a persone. Da ciò potremmo dedurre già tutto, poiché valutare non vuol dire solo “assegnare un voto”. Questo però è ciò che molti, negli anni, ci hanno spinto a credere, ossia che il rendimento scolastico sia basato su una scala matematica che si sviluppa da 0 a 10.

Sebbene sia assolutamente impossibile immaginare un metodo scolastico privo di valutazioni, è anche vero che ridurre tutto ad un numero è davvero poco oneroso sia nei confronti del corpo docenti, che basa la propria attività didattica su griglie e tabelle, sia nei confronti dell’alunno, il cui scopo non sembra essere dunque quello di formarsi, apprendere e crescere, ma di riuscire ad aggrapparsi ad un mero elemento matematico (un numero, per l’appunto) per superare l’anno scolastico.

È anche vero però che tra gli stessi discorsi degli studenti spicca quasi sempre la questione della valutazione: «Ho preso 5 perché sicuro il Prof. prova antipatia nei miei confronti»; «Meritavo di più»; «Non capisco perché ho preso un voto diverso dal mio compagno nonostante abbiamo scritto nel compito quasi le stesse cose»; «Quel professore sapeva già il voto da dare alla mia interrogazione prima che io aprissi bocca» ecc… Tutte queste sono solo alcune delle obiezioni che almeno una volta nella vita abbiamo pronunciato di fronte a quello che ritenevamo una valutazione ingiusta. Già, perché anche in questo caso si parla di questione di giustizia e ingiustizia: esiste un metodo oggettivo di valutazione?

I tipi di valutazione

Se si considera la questione della valutazione, Guido Armellini, insegnante di didattica della letteratura, ci offre un quadro completo nel suo “La letteratura in classe”. Per prima cosa considera la valutazione nella relazione, riprendendo alcune considerazioni dello psicologo Paul Watzlawick. In qualsiasi atto comunicativo esiste un messaggio relazionale implicito che inviamo al nostro interlocutore: “ecco come mi vedo”. Il segnale di risposta prevede un “ecco come ti vedo”, che può articolarsi in tre risposte:

  • La conferma: ti vedo come tu ti vedi. La più funzionale, poiché accresce la consapevolezza del sé.
  • Il rifiuto: non ti vedo come tu ti vedi. Può essere positivo per dare stimoli e motivazioni in più agli alunni, ma anche negativo per il fatto che l’interlocutore non si riconosca. È importante sottolineare che anche in questo caso sussiste il riconoscimento.
  • La disconferma: non conferma né rifiuta il riconoscimento del sé. Sottintende un equivalente verbale del tipo: tu non esisti;  gli effetti potrebbero essere letali, con la conseguente perdita del sé.

La valutazione può ancora articolarsi in

  • Classificatoria: prevede schemi e modelli standardizzati; considera negative le emozioni dell’insegnante, considerato un osservatore esterno a ciò che sta valutando; si valuta un’abilità di uno studente alla volta; si basa sulla logica del feed-back.
  • Dialogica: non si traduce in schemi e modelli standardizzati; considera risorse le emozioni degli insegnanti, considerate parte di ciò che valuta; si valutano le relazioni tra gli studenti; si basa sulla logica del teach-back.

Sembra evidente che la valutazione dialogica sia la più efficiente sia per costituire un’ecologia della relazione sana, sia per consentire agli alunni il raggiungimento degli obiettivi.  

Non meno importante risulta la differenza tra valutazione formativa e sommativa che si basa sullo stile scelto dall’insegnante. La prima si occupa di guidare lo studente verso il raggiungimento dei propri  obiettivi, attraverso diverse valutazioni in itinere, cercando di capire lungo il percorso scolastico quali siano le difficoltà e gli ostacoli da superare: in questo caso la valutazione è intesa come «elemento che regola il processo di insegnamento e apprendimento e come opportunità formante e orientativa» (“Introduzione alla pedagogia” di Silvia Kanizsa e Anna Marina Mariani). La seconda riguarda un tipo di valutazione “complessiva” a metà del percorso scolastico e alla fine del percorso scolastico: la cosiddetta “pagella con i voti”. La differenza sostanziale tra le due riguarda la frequenza della valutazione: nel primo caso si tratta di monitoraggio dell’apprendimento, nel secondo caso di misurazione delle competenze degli studenti in momenti determinati (normalmente alla fine del percorso).

Lo stigma della valutazione

Tornando alla questione iniziale, la domanda sul fatto che esista o meno un metodo oggettivo di valutazione prevede dunque una risposta negativa: è impossibile ridurre una valutazione ad un numero. Esiste quella che viene chiamata docimologia, ossia l’insieme degli studi che cercano di rendere oggettiva e scientifica la valutazione scolastica, attraverso strumenti specifici, come l’utilizzo di griglie o test a risposta multipla. Tutti strumenti poco inclusivi, proprio perché lasciano fuori dalle dinamiche aspetti indispensabili per la vita scolastica: l’aspetto psicologico, esperienziale e, ancor di più, l’aspetto emotivo.

La valutazione non può ridursi  ad un processo standard del tipo: inserisco gli input e ottengo (o non ottengo) degli output da valutare.

Poniamo un esempio: un alunno si ritrova a dover affrontare un’interrogazione di matematica, gli vengono poste domande specifiche; l’alunno ha studiato per tutta la settimana, quindi è preparato, ma l’ansia gli impedisce di dare il 100%, quindi si blocca, non riesce ad andare avanti; l’insegnante lo incalza, continua a fargli domande, non si placa di fronte ad una manifestazione di difficoltà dell’alunno; l’alunno non risponde più.

Ora, si potrebbe agire in due modi: assegnargli un voto negativo, con annessi rimproveri minacciosi riguardo la persistenza del voto negativo (se durante l’interrogazione successiva non risponderà alle domande), oppure assumere un atteggiamento empatico, che non vuol dire assegnargli un voto positivo a prescindere, ma parlare con l’alunno cercando di intuire la radice del problema, dicendogli che la valutazione non è una minaccia, un marchio da portare in segno di vergogna, ma uno strumento di confronto rispetto alle conoscenze e delle competenze acquisite (tra cui quella di esprimersi in pubblico).

Chiaro è che in entrambi i casi, come si sottolineava prima, la valutazione sarà negativa: nel primo caso però lo studente tornerà in classe terrorizzato, umiliato e scoraggiato nei confronti di una materia che inizierà ad odiare ritenendola ostile (insieme all’insegnante); nel secondo caso, lo studente tornerà in classe con la voglia di superare i propri limiti, attraverso la fiducia nei confronti di un docente che non ridicolizza, ma comprende.