Come dovrebbe essere un insegnante?
Come dovrebbe essere un insegnante?

Come dovrebbe essere un insegnante?

Come dovrebbe essere un insegnante?

Ci siamo mai chiesti come dovrebbe essere un insegnante? Che aspetto dovrebbe avere? Come dovrebbe valutare? In che modo dovrebbe relazionarsi agli studenti? Indubbiamente sì. Almeno una volta nella vita tutti abbiamo criticato il ruolo del docente, anche solo per deridere la felpa indossata per sbaglio dal professore di geografia, sempre impostato, o per quel rimprovero ingiusto che ha prodotto come risultato la perdita della stima nei suoi confronti.

Spesso si dice che gli insegnanti ricoprano un ruolo basato sulla vocazione: questo non vuol dire però che possa farlo soltanto una cerchia ristretta di prescelti che abbiano “ricevuto la chiamata”, ma che per fare un lavoro così fittamente intersecato con la capacità relazionale è necessaria una grande preparazione, soprattutto emotiva. Dai tempi in cui il professore d’italiano Antonio Martinelli rendeva impossibile la vita dei maturandi in Notte prima degli esami, non solo sono passati tanti anni, ma è cambiata anche la figura del professore come incarnazione di un’enciclopedia atta soltanto a infondere nozioni pressoché statiche, ferme, immobili, prive di qualsiasi applicazione ad un contesto reale, per lasciare spazio a docenti il cui unico scopo è rendere autonomi intellettualmente i propri alunni, sviluppando le proprie competenze, senza sembrare dei contenitori vuoti, in attesa che qualcuno li riempia soltanto di date e concetti.

Nicolas Vaporidis e Giorgio Faletti in “Notte prima degli esami” di Fausto Brizzi, 2006

È anche vero, tuttavia, che ancora oggi figure prive di qualsiasi aspetto emotivo rivestono questo ruolo: ciò comporta, in un lavoro predisposto allo stress (essendo basato sulle relazioni, le cosiddette high touch professions) una situazione complessa da entrambi i lati della cattedra. È impossibile infatti, con il cambio generazionale, i nativi digitali e la Generazione Z, e con i numerosi studi psicologici, pedagogici e sociologici sviluppatisi negli anni, immaginare che l’approccio di un docente possa essere distaccato, esterno al contesto classe, rivestendo più la professione del vigile urbano il cui compito è quello di mantenere l’ordine e dare indicazioni (a volte troppo rigide, a volte senza senso). Ma come dovrebbe essere allora un insegnante?

Lo stile dell’insegnante

Sono tre le modalità che un insegnante può scegliere di adottare per l’insegnamento individuate da Lewin, Lippit e White:

  • Stile autoritario, che si concentra sulla figura dell’insegnante come figura autoritaria;
  • Stile democratico, in cui il docente ha il ruolo di “guida” per i suoi alunni, riesce a infondere fiducia e a dare strumenti di auto-regolazione, mostrando nei loro confronti un forte interesse;
  • Stile laissez-faire, che si concentra sulla totale mancanza di autorevolezza da parte del docente, facendo ricadere ogni scelta e responsabilità sulla figura dell’alunno.

È interessante considerare l’esperimento di  Lewin, Lippit e White, che consta nell’adottare da parte degli insegnanti uno stile “puro “, coerente. Infatti, può capitare che un insegnante decidi di adottare uno stile e di mutarlo nel corso del tempo, così da ottenere uno stile misto.

Ad esempio: un docente può decidere di adottare uno stile democratico, ma quando subentrano le prime difficoltà (come il mancato rispetto delle regole), passa ad uno stile autoritario. Questo può destabilizzare gli alunni, i quali cercano di adattarsi ad un tipo di modello e possono ritrovarsi spiazzati di fronte al cambiamento repentino del docente, perdendo la stima e la considerazione positiva nei suoi confronti.

Anche nell’arduo compito della valutazione possono subentrare non poche difficoltà: quante volte ci siamo ritrovati di fronte ad un voto considerato “ingiusto”? O quante volte abbiamo discusso con i nostri compagni di classe per il metodo valutativo “sbagliato”? Anche in questo caso, è indispensabile adottare uno stile comunicativo efficace ed empatico, basato sulla considerazione “attiva” degli alunni: spiegare il metodo, riuscire a scovare un territorio comune in cui confrontarsi sulle scelte valutative e, quantomeno, spiegare i motivi della valutazione (quante volte ci siamo ritrovati a ricevere un voto mediocre con una spiegazione superficiale da parte dei docenti?)

Stereotipi e pregiudizi

Non ci pensiamo, ma quando abbiamo di fronte una persona, la categorizziamo nel giro di pochi secondi: ciò riguarda i cosiddetti stereotipi, attraverso i quali riusciamo a creare degli schemi che ci permettono di capire e “organizzare” i nostri pensieri. Il problema è quando lo stereotipo si tramuta in pregiudizio: in quel caso non si tratta soltanto di una mera classificazione (giusta o sbagliata che sia) ma dell’assunzione di un atteggiamento condizionato da quelle categorie. Per intenderci, se un professore categorizza un suo alunno come “incapace” (per le caratteristiche simili alla categoria “incapace” nell’immaginario del professore), è possibile che si ricreda, oppure che continui a considerare l’alunno incapace, nonostante quest’ultimo cerchi in tutti i modi di farsi valere o di studiare per ottenere buoni voti. In quest’ultimo caso, il pregiudizio è così forte da distorcere addirittura gli eventi pur di far combaciare il giudizio del professore con l’atteggiamento dell’alunno: questo riguarda, per la maggior parte, i tanti “è intelligente ma non si applica” probabilmente ingiusti.

A questo proposito, sono tante le ricerche e gli studi di Silvia Kanizsa, docente di pedagogia generale e autrice del libro Introduzione alla pedagogia generale con Anna Marina Mariani, in cui evidenzia le varie ricerche attraverso interviste somministrate ad alunni e professori. Ad esempio, nell’immaginario comune, una professoressa troppo truccata ci appare fuori luogo, poiché un docente deve vestire in modo sobrio, deve far trasparire tutta la fatica riposta nella correzione dei compiti in classe, deve essere super puntuale e privo di qualsiasi forma di “trasgressione” estetica, altrimenti sarebbe ridicolo.

Ancora, un “buon professore” è una persona anziana con i capelli grigi e un filo di barba, il giusto per trasmettere un senso di saggezza; deve vestire anche lui in maniera sobria: non sono ammesse felpe, capelli troppo lunghi o cappelli strani… Per non parlare delle categorie professore/professoressa, anche in quel caso si aprirebbe il vaso di pandora. Che il nostro cervello elabori delle associazioni, è cosa nota e naturale. Il punto è riconoscere queste categorizzazioni e cercare di superarle, soprattutto da parte del docente, il quale, il più delle volte, non riesce a rendersi conto delle sue prese di posizione a partire dai propri pregiudizi. Si dovrebbe partire sempre dalla fiducia nei confronti degli alunni, creando un “clima di classe” che sia basato sulla comunicazione e sulla fiducia reciproca.