La persecuzione culturale dei popoli nativi del Nord America
La persecuzione culturale dei popoli nativi del Nord America

La persecuzione culturale dei popoli nativi del Nord America

La persecuzione culturale dei popoli nativi del Nord America

215 piccole paia di scarpe sono state posizionate davanti alla Vancouver Art Gallery dall’artista canadese Tamara Bell ed ognuna di esse simboleggia una vita persa dietro il silenzio delle istituzioni e oggi, seppur parzialmente, ritrovata.

La retorica e i luoghi comuni circa la storia di un Paese vengono spesso scossi dal confronto con la realtà dei fatti. Lo scorso 29 maggio a Kamloops, cittadina della Columbia Britannica canadese, è stata scoperta una fossa comune contenente i resti ben 215 bambini, figli di nativi americani e studenti della più grande scuola di rieducazione del Paese: la Kamloops Indian Residential School. La scoperta, avvenuta in un’area adiacente alla scuola, ha riportato alla luce uno dei periodi più bui e meno conosciuti della storia nordamericana: l’olocausto culturale protratto ai danni dei nativi.

Il termine “olocausto” fu utilizzato per primo da David E. Stannard nel 1992 (nel suo libro Olocausto Americano) per poter classificare la vastità del danno subito dai nativi americani dopo l’arrivo europeo in tutto il continente. Sebbene siano relativamente noti (e spesso propagandati) i tentativi dei coloni di eliminare fisicamente qualsiasi presenza o resistenza dei nativi, molto meno note sono quelle misure adottate per eradicare la radice culturale all’interno di queste popolazioni. Le scuole di rieducazione ne sono l’esempio più eloquente, oltre che il più recente.

Il ritrovamento riporta dunque l’attenzione su un momento della storia europea molto intricato e ampio come l’approccio culturale alla scoperta del Nuovo Mondo. Qui tenteremo di approfondire anzitutto il caso del Canada, partendo dalla cronaca odierna e tentando di risalire alle radici culturali più profonde che hanno modellato nelle maniere più diverse le tante aree delle Americhe e come questo fenomeno non sia una sola prerogativa europea. Infine, affronteremo il “se” e “come” sia possibile per le vittime riuscire a fare pace con lo Stato.

Educare per eradicare: il caso del Canada

Non appena appresa la notizia del ritrovamento, il Primo Ministro canadese Justin Trudeau ha twittato il suo dispiacere e orrore parlando di un capitolo oscuro e vergognoso della storia canadese.

«È una dura realtà ed è la nostra verità, è la nostra storia», ha dichiarato Rosanne Casimir, Capo della nazione nativa Tk’emlúps te Secwepemc. Casimir ha inoltre spiegato come le ricerche dei bambini scomparsi dalle Residential Schools siano iniziate ufficialmente nei primi anni 2000, motivate soprattutto dalla scarsa credibilità delle spiegazioni ufficiali (quali la fuga) per il crescente numero di sparizioni. Il ritrovamento di Kamloops è destinato ad essere il primo passo di un percorso estremamente doloroso, ma necessario, per comprendere più a fondo l’entità del crimine di Stato perpetrato ai danni dei nativi e che già conta più di 4.100 decessi ufficiali.  

Sebbene, come vedremo in seguito, la presenza coloniale europea nel nordamerica inizi nel XVI secolo, sarà solo nel 1876 che il Canada sancirà l’esclusione ufficiale dei nativi da qualsiasi diritto riservato invece agli europei: l’Indian Act stabiliva la prerogativa del governo di legiferare in materie inerenti le vite e le terre dei nativi. Nel 1883, il Primo Ministro Sir John Macdonald approvò la creazione delle residential schools, inizialmente gestite alla Chiesa Cattolica, con lo scopo di educare le nuove generazioni in modo “appropriato separandoli dalle rispettive famiglie. Una decisione forse un po’ radicale -rifletteva Macdonald- ma necessaria per la loro civilizzazione.

Già nel 1907, P.H. Bryce, medico per gli Indian Affairs (dipartimento del governo specializzato nella gestione e sviluppo delle politiche verso i nativi) denunciò come le condizioni delle residential schools fossero estremamente precarie e nocive per la salute dei bambini. Nonostante ciò, nel 1920, fu reso obbligatorio per ogni bambino dai 7 ai 15 anni la frequentazione delle scuole di rieducazione. Soltanto a partire dal 1958 il governo iniziò a interessarsi più approfonditamente alle condizioni delle scuole, iniziando un lento passaggio di consegne nella loro gestione dagli ordini religiosi agli ufficiali governativi.

La missione delle residential schools rimase tuttavia immutata nei decenni: la completa eradicazione della cultura locale. Il programma delle scuole era incentrato sull’annientamento di qualsiasi tradizione non-europea piuttosto che sulla formazione ed educazione dell’individuo. Le rigide regole prevedevano il taglio corto dei capelli, l’utilizzo di uniformi e numeri di identificazione, la separazione tra maschi e femmine (anche se fratelli o sorelle), il divieto di parlare la lingua nativa (rimpiazzata da inglese o francese) o di praticare la propria cultura tradizionale. Alle femmine era insegnata la cura della casa e il servizio domestico, la cucina di base, e il ricamo; ai maschi veniva insegnato il lavoro nei campi e i lavori di manutenzione. Molti studenti erano spinti a lavorare part-time all’interno della scuola stessa, con i gestori che giustificavano tale opera come un’occasione di mettere in pratica quanto appreso, mentre la realtà spesso nascondeva l’impossibilità finanziaria e organizzativa dei vertici delle scuole di sostenere il progetto senza una mano d’opera gratuita.

Come già accennato, le condizioni sanitarie avevano preoccupato le autorità fin da inizio ‘900. A peggiorare la situazione vi era la cronica carenza di fondi per provvedere ai bisogni basici dei residenti delle scuole: condizioni igieniche precarie, malnutrizione, e sfruttamento lavorativo portavano spesso al sorgere di malattie potenzialmente pericolose (diarrea, tubercolosi e polmonite, tra le tante) alle quali però le strutture non potevano far fronte. Non era raro che i soggetti malati (spesso mortalmente) fossero riconsegnati alle famiglie d’origine, dove finivano per contagiare tutto il nucleo familiare; in altri casi invece i soggetti venivano isolati all’interno della scuola fino a “scomparire nel nulla”…

La maggior parte delle persone che ha vissuto l’esperienza delle residential schools parla di un numero incalcolabile di abusi (psicologici, fisici e sessuali) perpetrati all’interno delle mura scolastiche da parte del personale, sia laico che religioso. Questi Sopravvissuti (Survivors, termine che loro stessi hanno adottato) si sono sempre battuti per l’abolizione del sistema delle scuole di rieducazione (l’ultima chiusa solo nel 1996) e, soprattutto, per il riconoscimento dei danni subiti sotto un incalcolabile numero di punti di vista.

La scuola di Kamloops, tra le più importanti del Paese, chiuse i battenti alla fine degli anni ‘70 e dopo che lo Stato aveva rilevato la gestione dalla Chiesa sul finire del decennio precedente. In quasi un secolo di storia, però, l’istituto era arrivato ad ospitare ben 500 alunni contemporaneamente nel momento di maggior successo: molti degli ospiti non erano nemmeno registrati e ciò rende le ricostruzioni delle loro vicende ancora più difficili oggi, rendendo ancora più oscuro il reale numero di bambini che effettivamente sono passati attraverso quel sistema di rieducazione trovandovi troppo spesso la morte.

Il fardello della civiltà

Quando gli europei giunsero nel Nuovo Mondo dovettero misurarsi con popolazioni sconosciute e lo shock culturale fu mutuo. Entrambi i protagonisti videro nell’altro una minaccia e un’opportunità allo stesso tempo: ad esempio, Cortés poté espugnare Tenochtitlán grazie all’alleanza con numerosi nemici della confederazione Azteca, mentre altrettante nazioni indigene nordamericane si allearono con le potenze europee nel tentativo di sconfiggere antichi rivali. La pace, tuttavia, può risultare più difficile della guerra: per permettere la convivenza tra i due mondi e giustificare la continua conquista dei territori “selvaggi”, venne presto introdotto il giustificativo della conversione ed educazione degli indigeni.

Data la vastità degli spazi disponibili, gran parte delle popolazioni native nordamericane riuscì a sfuggire all’espansione coloniale fino alla fine del XVIII secolo, riuscendo a mantenere spesso i propri costumi e la propria indipendenza politica. La nascita degli Stati Uniti (1783) e la pace col Canada Britannico (1815) misero fuori gioco qualsiasi tentativo di (ri)conquista europeo del Nord America: iniziò la stagione della conquista del “selvaggio West”, ovvero dell’espropriazione e annessione dei territori dei nativi, molti dei quali indeboliti da decenni di guerre accanto ai coloni.

Come descrisse il filosofo francese Alexis de Tocqueville nella sua opera “La Democrazia in America” (1835), poco dopo l’Indipendenza, negli Stati Uniti di fine XVIII secolo, vigevano due tipologie di segregazioni: la prima a danno degli schiavi africani, ritenuti dalla società del tempo essere naturalmente e storicamente inferiori all’europeo e dunque trattati come tali; la seconda, invece, riguardava quei nativi americani che tanto avevano impressionato gli europei sui campi di battaglia (risultando spesso preziosi alleati per lo stesso Washington) e la cui cultura risultava spesso affascinante (ad esempio, i missionari videro il seme della dottrina cristiana nell’idea nativa di un Grande Spirito creatore dell’universo). L’ostilità verso i nativi era dovuta alla loro fiera e decisa rinuncia ad adottare uno stile di vita completamente occidentale. Tocqueville scrisse come gli schiavi africani e i nativi si trovassero nella medesima condizione di emarginazione ma per le ragioni più opposte: i primi guardavano agli usi e costumi dei propri padroni come una possibile chiave per ottenere la libertà e l’inserimento nella società, i secondi invece rifuggivano ogni tentativo di assimilazione su basi culturali finendo ai margini sociali e spesso vittima dell’alcool.

Anche chi scelse di adattarsi alle nuove condizioni di convivenza, come i Cherokee o gli Irochesi, non furono però esenti da continui abusi e prevaricazioni governative. La creazione delle riserve (insieme allo stato dell’Oklahoma) fu forse l’espressione migliore di questa nuova politica: una ghettizzazione in piena regola e regolamentata dal governo. Nella seconda metà del XIX secolo, il potere statale andava affermandosi sia in Canada che negli Stati Uniti (anche grazie alla Guerra Civile), eliminando le ultime resistenze locali dei nativi e l’idea della “rieducazione culturale” divenne maggioritaria quando si comprese che un annientamento militare sarebbe stato ben più dispendioso e difficile da operare in ambedue i Paesi.

L’idea di una presunta superiorità culturale affonda le proprie radici nella psiche dell’uomo e nella necessità umana di catalogare il mondo circostante, associando spesso il “conosciuto” con l’idea di “normalità”. Per la cultura occidentale/europea ciò è riscontrabile fin dall’Età Classica (vedasi l’origine del termine “barbaro” nel greco antico) e senz’altro il Cattolicesimo ha contribuito a radicalizzare questa visione del mondo diviso in una costante lotta tra le forze del Bene e del Male: la “scoperta” del Nuovo Mondo ha spostato questi scontri, già dilaganti in Europa, oltreoceano e nei confronti di popolazioni sconosciute. Il fardello della civiltà, tuttavia, non è una prerogativa europea poiché innumerevoli popoli hanno oppresso o tentato di assimilarne altri utilizzando la medesima giustificazione.

Survival International riporta – e denuncia- l’esistenza di molteplici scuole o politiche di rieducazione orchestrate da alcuni governi ai danni di minoranze etniche ancora al giorno d’oggi: non solo in Sud America, ma anche in India e in Indonesia. Il fenomeno, dunque, non è solamente ascrivibile alla storia o cultura europea, ma interessa anche regioni del mondo professanti una fede differente e aventi usanze lontane da quelle dell’Occidente. Il problema dell’incontro con l’“altro”, con la diversità, è un problema insito in ogni società di ogni tempo, la loro differente risposta alla medesima problematica può solamente offrire nuove prospettive per il futuro, ma non è garanzia di innocenza o di superiorità morale.

È possibile riparare il passato?

Un ottimo quesito. Andrebbe anzitutto definito cosa si intenda per “riparare/riparazione”: certamente non si può accettare una logica da Codice di Hammurabi (“occhio per occhio”) perché si cadrebbe in faide senza fine. Nel caso delle Residential Schools in Canada, tuttavia, lo stesso significato del termine non trova ancora consenso unanime.

A partire dalla fine degli anni ‘80, il sistema legale canadese ha iniziato a raccogliere e approfondire le denunce di abusi (più di 38.000) presentate dai Sopravvissuti, aprendo la strada alle prime condanne. Nel 1982 venne modificata la Costituzione, includendo la menzione dei popoli nativi come cittadini canadesi aventi pieni diritti politici e civili. Negli anni ‘90 venne istituita la Royal Commission on Aboriginal People nel tentativo di raccogliere le testimonianze delle vittime e iniziare la ricostruzione di una verità storica: nel 1996 la Commissione pubblicò un rapporto che sconvolse il Paese e spinse il governo ad istituire organi di investigazione appositi. Venne inoltre istituito un ente (The Aboriginal Healing Foundation) amministratore di 350 milioni di dollari per il risarcimento delle comunità colpite. Ciononostante, molti Sopravvissuti ritennero (e ritengono tuttora) le azioni del governo insufficienti in quanto volte maggiormente a risarcire le vittime degli abusi su un piano economico, non tenendo conto del danno culturale e psicologico inflitto.

Nel 2005 si contavano quasi 80,000 Sopravvissuti risarciti dallo Stato. L’11 giugno 2008, in una cerimonia ufficiale, il governo canadese offrì pubbliche scuse per la responsabilità nel dramma delle scuole di rieducazione. Una Commissione per la Verità e la Riconciliazione (2005-2015) ha promosso numerosi eventi di incontro e dialogo dove i Sopravvissuti hanno potuto raccontare le proprie esperienze, sensibilizzando la popolazione su un tema a molti ancora sconosciuto.

Nel 2017 il Primo Ministro Trudeau ha chiesto le scuse ufficiali da parte di Papa Francesco per la partecipazione della Chiesa Cattolica nella gestione delle Residential Schools: dopo un primo tentennamento, anche il Papa ha offerto le proprie scuse a nome del mondo cattolico.

Esistono dunque varie tipologie di “riparazioni”, più o meno soddisfacenti. Se è pur vero che non si può cambiare il passato, i più recenti ritrovamenti possono tuttavia contribuire ad abbattere ulteriormente gli stereotipi dell’era coloniale e coinvolgere i nativi in campagne di promozione delle loro tradizioni e culture. Perché la loro storia è anche la storia di tutti i canadesi, e viceversa.

Post Scriptum

Le problematiche sollevate dalla questione sono innumerevoli e ancora tengono banco nel dibattito accademico e non solo. Chi scrive crede nella necessità di comprendere le radici storiche di un determinato evento per poter iniziare a comprendere la forma mentis dei protagonisti, tentando di non giudicare le azioni altrui in sede di analisi. La storia delle Americhe è tornata recentemente a dividere, questa volta le nuove generazioni. Molti giovani vorrebbero la rimozione e distruzione di molti elementi “celebrativi” del passato coloniale: secondo questa logica, la scuola di Kamploos andrebbe rasa al suolo (così come altri luoghi d’orrore in Europa e nel mondo). La loro preservazione e rivalutazione, invece, potrebbe permettere alle generazioni future di non cadere nella trappola del negazionismo e di mantenere sempre visibile una grande cicatrice nella storia nazionale. La damnatio memoriae, alle volte, favorisce proprio coloro che si vorrebbe danneggiare.