La perdita della memoria tra cinema e realtà
La perdita della memoria tra cinema e realtà

La perdita della memoria tra cinema e realtà

La perdita della memoria tra cinema e realtà

«Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, quando chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci. Allora, sono convinto o no che il mondo continua ad esserci? C’è ancora? Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso… Allora, a che punto ero?».

Questo è un piccolo estratto del film Memento, che nel 2002 è valso l’Oscar come miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio rispettivamente ai fratelli Christopher e Jonathan Nolan, e Dody Dorn. Protagonista Leonard Shelby, ex investigatore per una compagnia di assicurazioni, che cerca l’assassino di sua moglie, nonché l’uomo che gli ha portato via per sempre la memoria.

Amnesia anterograda: che cosa è?

Chiunque abbia visto il capolavoro di Nolan sa che il film ruota tutto intorno all’incapacità di Leonard Shelby di immagazzinare nuovi ricordi, incapacità a cui il protagonista cerca di ovviare con post-it, polaroid e tatuaggi, così da ricostruire- praticamente ogni quindici minuti- la sua vita fino a quel momento. Un tipo di amnesia possibilmente ancora più invalidante di quella a cui generalmente si pensa quando si parla di disturbi della memoria. Un tipo di amnesia che fa vivere in un eterno presente, dove il fluire del tempo rimane congelato. Non sono i ricordi passati ad essere intaccati, infatti, ma quelli nuovi che dovrebbero essere accumulati ed immagazzinati nella memoria a lungo termine. Nel caso di Leonard Shelby, invece, queste informazioni rimangono solo in quella a breve termine, senza mai venire convertite in memorie stabili da riporre nel “magazzino finale” della memoria a lungo termine.

“Memento” nella vita reale: il caso di H.M

Il caso reale più famoso di amnesia anterograda, simile a quello di Leonard Shelby, è quello di H.M., acronimo di Henry Gustav Molaison, nato a Brooklyn nel 1926. Dopo che, a sette anni, un incidente in bicicletta gli aveva fatto sbattere la testa, H.M. aveva iniziato a soffrire di crisi epilettiche così gravi che, ad appena ventisette anni, gli era stato suggerito di sottoporsi ad un intervento chirurgico per la rimozione di tutta la porzione mediale di entrambi i lobi temporali. A seguito dell’operazione, tuttavia, nonostante le generali capacità intellettive fossero rimaste pressoché intatte, i medici si accorsero che il ragazzo non riusciva più ad immagazzinare nuovi ricordi. Le estese lesioni all’ippocampo, all’amigdala e al giro paraippocampale riportate a seguito dell’intervento chirurgico, infatti, gli avevano fatto perdere questa capacità, facendolo precipitare in uno stato che lui stesso descriveva come: «svegliarsi da un sogno… Ogni giorno solo in se stesso…».

La giovane ricercatrice che seguì il caso di H.M. sin dall’inizio, Brenda Milner, però, fu in grado di provare che, nonostante la perdita dell’abilità di immagazzinare nuove informazioni -come il nome delle persone appena conosciute, il fatto che i suoi genitori fossero scomparsi o il giorno della settimana- H.M. era riuscito comunque, inconsciamente, a mantenere, in un certo senso, la capacità di ricordare. Le informazioni che, infatti, sfuggivano al suo controllo erano quelle relative alla memoria esplicita, che riguarda quei ricordi che possiamo riportare alla luce volontariamente. La memoria implicita, però, ovvero quella non sottoposta ad un controllo diretto e consapevole, era preservata. Per fare un esempio: ricordare episodi della propria vita, nomi di persone e luoghi è un compito della memoria esplicita; tornare in bicicletta dopo anni che non si va, invece, è possibile grazie alla memoria implicita. E H.M. poteva ancora immagazzinare ricordi in maniera implicita, migliorando le sue performance in compiti manuali giorno dopo giorno con la pratica, nonostante il fatto che, secondo il suo punto di vista, ogni volta fosse la prima volta che si cimentava in quel compito.

Henry Gustav Molaison ha passato la sua vita tra diversi laboratori e anche dopo la sua morte- avvenuta nel 2008- il suo cervello è rimasto alla scienza. Grazie a lui sono state stabilite le funzioni principali e l’organizzazione della memoria nel cervello, rendendo il debito delle neuroscienze verso questo cortese paziente più grande di quanto si possa immaginare. Una persona gentile ed altruista, come dimostrano le parole che usava verso il suo stesso neurochirurgo: «Quello che ha imparato su di me ha aiutato altre persone, e io ne sono felice».