In Myanmar la lotta per la democrazia non si è mai fermata
In Myanmar la lotta per la democrazia non si è mai fermata

In Myanmar la lotta per la democrazia non si è mai fermata

In Myanmar la lotta per la democrazia non si è mai fermata

Lo scorso febbraio in Myanmar (o, più comunemente, in Birmania) era stata arrestata la leader del partito di maggioranza della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), Aung San Suu Kyi, accusata dai militari di aver falsificato le elezioni. Queste ultime rappresentavano un evento storico per il Paese, chiamato per la seconda volta alle urne dalla fine del regime dittatoriale nel 2011. L’esercito ha nei fatti orchestrato il golpe, assumendo il controllo del governo e rimuovendo i parlamentari del partito di maggioranza. In questi mesi si sono svolte numerose manifestazioni- anche violente- nel Paese che hanno trovato solidarietà nella comunità internazionale ma che tuttavia, non hanno accennato a placarsi, ed è improbabile che ciò possa accadere nel breve termine.

Gli sviluppi

La situazione è drasticamente precipitata negli ultimi tempi e si calcola che almeno 700 persone siano state uccise; tra queste, almeno diciannove sarebbero state condannate a morte. In diverse città è tutt’ora in vigore la legge marziale, mentre i servizi internet risultano ancora sospesi, rendendo dunque impossibile qualsiasi contatto con l’esterno. L’esercito ha adottato misure via via più violente nei confronti dei protestanti, aprendo il fuoco indiscriminatamente sulle masse e, al contempo, deresponsabilizzandosi per le proprie azioni. 

Secondo le forze militari, infatti, esse starebbero agendo nell’interesse del Paese, investigando in parallelo sulle possibili frodi legate alle elezioni. Per tale ragione, dunque, secondo i militari non si tratterebbe di un colpo di Stato e la colpa per l’elevato numero di vittime ricadrebbe unicamente sui manifestanti considerati “eccessivamente violenti.” Tali affermazioni assumono tinte ancor più drammatiche alla luce del fatto che il governo avrebbe chiesto che i familiari delle vittime pagassero 85 dollari per riavere indietro il corpo dei propri cari uccisi in una protesta particolarmente violenta avvenuta il mese scorso. 

In molti, per far fronte alla complessa situazione, si sono riuniti nelle giungle del Paese per imparare a usare le armi da fuoco. Buona parte di essi sono giovani membri del Movimento per la Disobbedienza Civile (MDC), e sono per lo più studenti, medici o insegnanti intenzionati a non farsi sopraffare dalle forze militari.

Nelle scorse ore, tuttavia, la giunta militare guidata da Thein Seo ha sciolto il partito di Aung San Suu Kyi poiché giudicato illegale per la sua condotta elettorale, e di conseguenza, tutti i suoi membri saranno processati per alto tradimento. Nel frattempo, la leader è, almeno ufficialmente, agli arresti domiciliari da febbraio anche se di lei si sono perse le tracce sin dall’inizio del golpe. Quest’azione non rappresenta che un ultimo tassello per sradicare la democrazia che, nell’ultima decade, si stava progressivamente consolidando.

La reazione della comunità internazionale

In parallelo, la comunità internazionale ha reagito secondo modalità più o meno affini, condannando quasi unanimemente la dittatura militare del Paese. Gli Stati Uniti, congiuntamente a Canada e Regno Unito, hanno annunciato ulteriori sanzioni per il governo militare, puntando in particolare ai tredici membri chiave del regime militare. Il Giappone, invece, si è detto pronto a congelare ogni forma di finanziamento, nonostante sin dal 1954 sia stato il Paese che ha maggiormente contribuito alla crescita economica del Myanmar. Le tensioni tra i due Paesi si sono acuite anche a causa dell’arresto del giornalista giapponese Kitazuma Yuki, fermato in Myanmar con l’accusa di aver diffuso informazioni false. In più occasioni il reporter ha esortato il Giappone ad intervenire, denunciando l’azione repressiva attuta nei confronti dei giornalisti e dei cittadini. In più, anche l’atleta birmano Win Htet Oo ha chiesto che il suo Paese venga espulso dalle Olimpiadi di Tokyo, affermando che «chiunque commetta genocidi non merita di partecipare a tale competizione».

Solamente nelle scorse settimane i leader dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) si erano riuniti per trovare un accordo in cinque punti che mettesse fine alle tensioni, ma le loro azioni, almeno per il momento, si sono dimostrate inadeguate. Nel frattempo, la popolazione birmana continua a lottare, nel silenzio, per un Paese libero e democratico