Haiti: l’inferno dimenticato dal mondo
Haiti: l’inferno dimenticato dal mondo

Haiti: l’inferno dimenticato dal mondo

Haiti: l’inferno dimenticato dal mondo

Situato nel Mar dei Caraibi, Haiti è un piccolo Stato che occupa la porzione occidentale dell’isola Hispaniola, condividendo il territorio con la Repubblica Dominicana. Specialmente negli ultimi anni, Haiti è stato investito da molteplici crisi socio-politiche e calamità naturali che hanno contribuito a renderlo un Paese sempre più instabile e pericoloso per i suoi cittadini. Eventi recenti come il terremoto del 14 di agosto e l’uccisione dell’ex presidente Jovenel Moïse hanno poi provocato un’ulteriore crisi migratoria.

Anche di fronte ad un simile scenario, i principali leader politici occidentali stanno agendo egoisticamente, ignorando le sofferenze di un popolo che continua a essere martoriato da oltre un secolo e calpestando i diritti umani dei cittadini. Per di più, gli eventi che stanno colpendo Haiti ricevono scarsa copertura dai media europei, anche se questi meriterebbero un’attenzione mediatica maggiore poiché mettono in luce alcune delle dinamiche più contraddittorie dell’attuale “società globale.” Nella fattispecie, i drammi di Haiti dimostrano il tragico divario esistente tra i Paesi ad alto e basso reddito. Per esempio, secondo il database online Trading Economics, il Lussemburgo, Paese con il PIL più alto del mondo, registra un PIL Pro Capite di 107.458 dollari nel dicembre del 2020, mentre Haiti presentava il più basso in assoluto del continente americano, pari a 1188 dollari. Questi dati sono allarmanti e mostrano come non tutti stiano godendo dei benefici della globalizzazione allo stesso modo, dando per certi versi l’idea che lussemburghesi e haitiani vivano su due pianeti distinti e separati. 

Un supplizio pluricentenario

Prima di addentrarci nell’attuale contesto haitiano, occorre però ripercorrere brevemente la storia recente di questo Paese, largamente ignorata nei libri di storia, ma non per questo meno importante. Consumatasi tra il 1791 e il 1804, la Rivoluzione Haitiana rappresenta infatti un evento cruciale nel processo di decolonizzazione nazionale e regionale. Questi eventi risultarono determinanti nella proclamazione di indipendenza di Haiti dalla Francia, che fino ad allora ne era sovrana. L’esempio haitiano incentivò i movimenti di indipendenza che già stavano germogliando nell’intera America Latina. Malgrado il Paese fosse definito il “diamante della corona francese” per la sua ricchezza mineraria, la situazione economica peggiorò in seguito alla proclamazione d’indipendenza dalla Francia, che impose un ingente debito (che verrà saldato solo nel 1947) per compensare la perdita della manodopera schiavile a discapito dei coloni bianchi. Anche a causa di queste circostanze storiche, Haiti rimane uno dei Paesi più poveri e instabili dell’intero pianeta.

Una terra inospitale: Haiti oggi

Colpi di stato, epidemie di colera, disastri climatici e uragani sono solo alcune delle svariate tragedie che hanno colpito la popolazione haitiana negli ultimi vent’anni, registrando milioni di morti ignorati dalla storia perché provenienti da un Paese considerato di scarso peso politico a livello globale. Nello specifico, il terremoto di magnitudo 7.2 dello scorso 14 agosto non è stato che uno degli ultimi disastri che hanno colpito la popolazione haitiana, della quale sarebbero morte almeno duemila persone. A ciò si aggiunge una profonda instabilità politica che affonda le sue radici almeno nel secolo scorso, teatro delle sanguinose dittature di François “Papa Doc” Duvalier e del figlio Jean-Claude, “Baby Doc.” La pandemia non ha fatto che rendere il Paese ancor più vulnerabile, mettendo in luce il divario in termini di vaccinazione tra Paesi ad alto e basso reddito: ad oggi, secondo i dati acquisiti da Reuters, al ritmo di vaccinazione attuale, sarebbero necessari oltre duemila giorni per vaccinare il 10% dell’intera popolazione Haitiana, che nel frattempo rimane in una condizione di estrema vulnerabilità. 

Una via di fuga sbarrata

In un simile contesto sono in molti a ricercare la sicurezza altrove, imbarcandosi in viaggi spesso pericolosi, ma che rappresentano spesso l’unica ancora di salvezza. Nelle ultime settimane è scoppiata infatti una vera e propria crisi migratoria, con molteplici haitiani alla volta dei vicini Stati Uniti e del Messico, Paesi che hanno tuttavia risposto agli arrivi con un rimpatrio di massa. 

Si stima che gli Stati Uniti possano aver rimpatriato circa 12000 persone. Coloro che fuggono da zone di crisi sono considerati un mero disturbo per le cosiddette società avanzate e, per tale ragione, un problema di cui disfarsi nel più breve tempo possibile. Solo una minima percentuale di rifugiati è stata in grado di ottenere l’asilo politico, mentre il resto è stato rimpatriato in forza di una controversa norma di sanità pubblica denominata Titolo 42, che imporrebbe il respingimento dei richiedenti asilo a causa della pandemia. Tuttavia, sembra che l’applicazione di tale norma appaia del tutto infondata in tale contesto, scatenando l’effetto opposto in termini di contenimento della pandemia. Come spiega la docente di pediatria dell’Università di Harvard, Julia Kohler, detenere grandi gruppi di migranti in luoghi angusti senza che vengano sottoposti ad alcun tampone rappresenta un rischio ben più elevato rispetto a un respingimento che, nel complesso, parrebbe avere poco a che vedere con il rigore scientifico.

Il Titolo 42 alimenta la pandemia. Non promuove la sanità pubblica, ma al contrario la contrasta.

Julia Kohler, docente di Pediatria presso la Harvard Medical School

Le criticità, tuttavia, non si evidenziano unicamente sul profilo puramente medico, ma anche su quello giuridico. L’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite Filippo Grandi sottolinea come l’attuazione del Titolo 42 entrerebbe in contrasto con le norme di diritto internazionale in materia di rimpatri. Nella fattispecie, la Convenzione di Ginevra del 1951 stabilisce che nessun rifugiato possa essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita potrebbe essere messa a rischio.

In sostanza, appare dunque evidente che le azioni dall’amministrazione Biden siano in totale continuità con le tanto – giustamente – contestate politiche anti-migratorie di Trump, le quali sono state uno dei suoi cavalli di battaglia durante l’intero mandato. Ciò che lascia con l’amaro in bocca è che Biden si sia proposto, in campagna elettorale, di riportare al centro le esigenze delle classi sociali più svantaggiate e di gestire adeguatamente le crisi umanitarie, salvo poi agire nel medesimo modo che lui per primo criticava aspramente.

In tale contesto, il Titolo 42 appare come una scusa, dietro la quale si cela – ancora una volta – il desiderio di respingere chi è considerato diverso e che, per tale ragione, non merita una seconda occasione. Le crisi migratorie sono un problema creato dai Paesi occidentali, i quali hanno impoverito e razzializzato il Sud del mondo, considerato inferiore sulla base del colore della loro pelle o di teorie razziste totalmente antiscientifiche. L’incessante costruzione di muri da parte dei Paesi occidentali devono destare preoccupazione tra i membri della comunità internazionale, in quanto mettono in luce il privilegio dei Paesi ad alto reddito che non intendono condividere la propria ricchezza con chi è stato solamente sfortunato nell’essere nato dove i più basilari diritti umani vengono sistematicamente violati. 

Tanto Trump, quanto Biden e buona parte dei leader occidentali sono accomunati da un desiderio: non avere ospiti indesiderati nel proprio territorio – per quanto sia decisamente discutibile parlare di territorio nel caso di un Paese le cui fondamenta poggiano su una storia di devastazione e appropriazione violenta. Bisogna a questo punto che l’Occidente si faccia un esame di coscienza e si chieda se sia ancora presente il desiderio di continuare a identificarsi nei valori transatlantici e di solidarietà che hanno contraddistinto parte del Secondo Dopoguerra, in cui importanti trattati internazionali sono stati ratificati: in primis la celebre Convenzione del 1951, già menzionata sopra, relativa allo status dei rifugiati. 

Quanto accaduto a richiedenti asilo provenienti da Haiti nelle scorse settimane, respinti brutalmente dalla polizia di frontiera americana al confine, sta assumendo connotazioni inquietanti proprio a causa della frequenza con cui si verificano tali episodi. In più, ciò avviene indipendentemente dallo schieramento politico dei governi che prendono tali decisioni, evidenziando quanto ancora non si sia pronti a fare i conti con il proprio passato coloniale e a decolonizzare la propria mente. In una parte del mondo – l’occidente – in cui si parla tanto di presunta “dittatura del politically correct” e di “invasione”, si evince quanto la storia abbia fallito nel proporre narrazioni capaci di discostarsi dal punto di vista dell’uomo bianco, e in cui nei fatti le persone più svantaggiate rimangono silenziate. Notizie come quella dei disastri avvenuti ad Haiti non destano più stupore, poiché ci siamo ormai quasi anestetizzati alla sofferenza; addirittura, alcuni provano persino gioia nel vedere tali immagini. Va da sé che, in ogni caso, le immagini raffiguranti i richiedenti asilo haitiani sono destinate ad aumentare, complice il cambiamento climatico che nei prossimi anni sarà responsabile di oltre 100mila migrazioni, nonostante il diritto internazionale fatichi a riconoscere nell‘emergenza climatica in corso una ragione che possa configurarsi giuridicamente valida per giustificare la richiesta d’asilo, aggravando ulteriormente la condizione dei Paesi più svantaggiati. Questi ultimi, infatti, sono i più esposti agli effetti delle condizioni climatiche estreme, e dispongono di strumenti insufficienti per difendersi rispetto ai Paesi più ricchi che- ricordiamo-sono i principali responsabili degli attuali disastri ambientali che siamo chiamati ad affrontare.

In conclusione, la crisi haitiana è passata in sordina in parte a causa del disinteresse occidentale nei confronti di un Paese considerato intrinsecamente inferiore rispetto alle grandi potenze del cosiddetto Nord del Mondo, e per questo non meritevole di attenzione. Un’altra ragione è indubbiamente da ricercare nella volontà, più o meno consapevole, di non fare i conti con il proprio passato coloniale, giacché equivarrebbe a mettere in dubbio l’intera storia europea e, di conseguenza, quelli che sono i privilegi di chi vive nel Vecchio Continente. I Paesi più abbienti dovrebbero invece prendersi in carico le persone che non hanno avuto il merito di nascere nella parte “giusta” del mondo. L’Europa, così come il Nord America, ha dunque il dovere morale di comprendere se le Convenzioni sui diritti umani abbiano ancora un valore, e se intenda perseguire tutti quei valori che, almeno su carta, considera fondamentali e inalienabili.

Editing e fact checking a cura di Alice Spada