Come si espelle uno Stato dall’Unione europea?
Come si espelle uno Stato dall’Unione europea?

Come si espelle uno Stato dall’Unione europea?

Come si espelle uno Stato dall’Unione europea?

 «Non c’è più spazio per l’Ungheria all’interno dell’Unione europea», ha detto Mark Rutte, Primo ministro olandese, dopo l’approvazione da parte del parlamento ungherese di una nuova legge anti LGBTQ. «Non è possibile che chi non accetta i valori europei faccia parte dell’Unione europea», ha aggiunto il portoghese Antonio Costa, Primo ministro del Paese presidente di turno del Consiglio, che poi ha ribadito: «nessuno viene costretto, abbiamo tutti aderito volontariamente». Lo stesso Mario Draghi, rivolgendosi direttamente ad Orbán- che si è detto pronto a lavorare con la Commissione- ha sottolineato come spetti solo a quest’ultima (e non al premier ungherese) stabilire se la legge vìola i Trattati fondamentali. Una reazione molto dura, quella dei leader europei, arrivati persino ad auspicare l’uscita dell’Ungheria dall’Unione.

Ma cosa può fare Bruxelles davanti a violazioni gravi del diritto europeo? Cosa dicono i Trattati in merito ad una eventuale espulsione di uno Stato membro? Esiste uno strumento che permette alle istituzioni europee di agire in questi casi?

Il meccanismo di sospensione: l’articolo 7

Non è la prima volta che al centro del dibattito pubblico viene posta una riflessione sulla possibile espulsione dell’Ungheria dall’Unione europea. Molto spesso ci siamo chiesti: perché l’Unione è così inerme davanti a chiare violazioni da parte di alcuni Stati membri? Perché non espelle l’Ungheria o la Polonia?

La risposta è che non ne ha gli strumenti giuridici. Infatti, l’unica possibilità di reazione in caso di violazioni gravi è quella legata alla sospensione, da ricercare nel Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 13 dicembre 2007, qualche anno dopo il primo “allargamento ad est” dell’Unione. Proprio la paura che questi nuovi Stati non fossero in grado di rispettare i principi fondanti europei portò ad adottare un meccanismo di garanzia che prevedesse la sospensione di alcuni diritti di uno Stato membro in caso di violazione dell’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea (TUE). Questo meccanismo è stato inserito nell’articolo 7 del TUE e rimane ad oggi l’unico strumento che l’UE può utilizzare in caso di gravi violazioni dei suoi valori.

Andiamo per ordine. L’art. 2 del TUE stabilisce quali sono i valori su cui si poggia l’Unione: «il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». Violare questi valori significa poter determinare una reazione a livello europeo, come precisato dall’articolo 7 del Trattato. Quest’ultimo prevede due diversi meccanismi: uno per le misure preventive, se c’è un chiaro rischio di violazione dei valori, e uno per le sanzioni, se quella violazione è stata accertata. Le sanzioni non vengono disciplinate dai Trattati ma possono includere la sospensione del diritto di voto. In tutte e due i casi, la decisione spetta al Consiglio europeo: per le misure preventive è richiesta la maggioranza dei quattro quinti degli Stati membri, per le sanzioni è necessaria l’unanimità. Ovviamente, nella votazione non prende parte lo Stato accusato. Il Parlamento può prendere l’iniziativa e chiedere al Consiglio di accertare se c’è un rischio di violazione e ha utilizzato questo potere per la prima volta nel 2018, proprio contro l’Ungheria.

Le debolezze dell’articolo 7

I limiti del meccanismo disciplinato all’articolo 7 appaiono fin da subito evidenti. Prima di tutto, l’unico strumento con cui le istituzioni europee possono rispondere in caso di gravi e persistenti violazioni dei valori fondanti da parte di uno Stato membro riguarda la possibilità di sospenderne alcuni diritti e mai, in nessun Trattato, viene disciplinata una procedura che ne permetta l’espulsione. Alla base di ciò, esistono diverse ragioni: la prima è di carattere formale in quanto inserire la possibilità di espulsione richiederebbe un emendamento ai Trattati da approvare all’unanimità tra tutti gli Stati membri che potrebbero però non voler mettere a rischio in questo modo la propria permanenza all’interno dell’UE; la seconda, invece, è di tipo legale poiché l’adesione all’UE comporta anche l’acquisto di una serie diritti da parte dei cittadini che sarebbero ingiustamente penalizzati in caso di espulsione; la terza obiezione, infine, risulta essere la più seria poiché tiene in conto del fatto che l’espulsione entrerebbe in conflitto lo spirito dei Trattati, che non hanno carattere punitivo ma conciliatorio. Dunque, non si punisce lo Stato per non aver soddisfatto tutti i criteri, ma si incoraggia in concreto a metterli in pratica.

Inoltre, anche la possibilità di sospendere alcuni diritti di uno Stato prevede che il Consiglio voti all’unanimità, ponendo dei seri problemi sulla sua vera possibilità attuarlo: se, ad esempio, il Consiglio dovesse votare sulle sanzioni per l’Ungheria, molto probabilmente la Polonia si opporrebbe, come successo durante i negoziati per introdurre il meccanismo sullo Stato di diritto.

All’interno dell’Unione europea, quindi, isolare o addirittura “cacciare” uno Stato membro è ad oggi impossibile. L’unico potere sanzionatorio è previsto dall’articolo 7, che risulta però essere inefficace e di difficile attuazione. Senza dubbio, è giusto richiedere una pronta e decisa azione dell’UE davanti a leggi vergognose, come quella ungherese, che mettono a repentaglio la sua credibilità, interna ed esterna. L’azione però va ben inquadrata tenendo conto di ciò che l’UE può fare e ciò che non può fare. E per ora Bruxelles può ben poco.