Alba Dorata e la fine di Lagos
Alba Dorata e la fine di Lagos

Alba Dorata e la fine di Lagos

Alba Dorata e la fine di Lagos

Ѐ ormai passato il tempo in cui Ioannis Lagos, leader del partito nazionalista di estrema destra greco Chrisí Avgí, Alba Dorata, poteva nascondersi dietro l’immunità da Europarlamentare. Il 27 aprile scorso il Parlamento europeo ha votato a larga maggioranza – 658 favorevoli, 24 contrari e 10 astenuti – per la rimozione della stessa immunità, allineandosi di fatto alla decisione del Tribunale di Atene, che lo scorso ottobre aveva già condannato Lagos e altri esponenti del partito, tra cui il leader e fondatore Nikos Michaloliakos, per una serie di reati, tra i quali spicca la guida di un’organizzazione criminale. La condanna che Lagos dovrà affrontare, una volta estradato in Grecia, è di tredici anni.

Alba Dorata: ombre e violenza

Partito di estrema destra, Alba Dorata trova le sue radici nella dittatura dei Colonnelli, che controllò la Grecia dal 1967 al 1974. Il leader fondatore Michaloliakos, grande sostenitore della Giunta Militare e di Papadopoulos stesso, pubblicava per la prima volta il giornale che darà poi il nome al partito – Chrisí Avgí – nel dicembre del 1980. Si deve aspettare, però un decennio perché il partito venga effettivamente riconosciuto ed entri nelle dinamiche politiche, seppure sempre con un ruolo marginale. Sono poi la crisi del 2008 e le successive elezioni del 2012 a decretarne l’ascesa definitiva, quando si aggiudica ben 21 seggi in Parlamento, cavalcando l’onda di scontenti della crisi economica, sociale e migratoria e sfruttando il rinnovato nazionalismo a fronte delle continue richieste provenienti dall’Europa.

Nonostante la maschera di legalità, la natura da squadracce fasciste del partito rimane sempre evidente. Sono frequenti gli attacchi ai migranti che rimangono nell’ombra, senza che vengano effettivamente riconosciuti dalle autorità. Caso nazionale diventa, però, lo schiaffeggiamento in diretta televisiva di Liana Kanelli, esponente del partito comunista, da parte di Ilias Kasidiaris di Alba Dorata. E, quando nel settembre del 2013, il rapper e attivista di sinistra Pavlos Fyssas viene ucciso da un esponente del partito, la violenza non può essere più ignorata. Così scoppia il caso e la corte di Atene, dopo ben sette anni dall’omicidio, dichiara che Alba Dorata è un’organizzazione criminale «travestita da partito politico».

Neonazismo e abuso dell’antico

L’ispirazione nazista di Alba Dorata è evidente e non è mai stata una priorità dei suoi leader nasconderlo. Dal Meandro di Rodi, il simbolo del partito la cui somiglianza con la svastica nazista salta immediatamente all’occhio, all’uso del saluto fascista durante le riunioni, fino ad arrivare ai commenti di Kasidiaris su Hitler stesso, definito «riformatore sociale» e «genio militare». La stessa eredità dell’antico, così sentita dai greci moderni, diventa un’arma da usare per Alba Dorata: ogni anno si ripetono i raduni alle Termopili, a ricordare i difensori che diedero la vita affinché la Grecia potesse rimanere libera. Il significato, tuttavia, viene completamente stravolto: ecco che i persiani, a seconda delle occasioni, diventano gli immigrati dalla Siria, i turchi, i macedoni del Nord, o i tedeschi con le loro misure di austerità. L’antico viene mistrattato, ripulito, deprivato dalle parti non in linea con il discorso nazionalista e poi ripresentato in una veste completamente alterata.

Le decisioni della corte di Atene prima e del Parlamento europeo poi, in questo senso, si ergono a difesa di tutti quei valori che gli antichi stessi hanno creato e lanciano al contempo un messaggio chiaro ad un’Europa sempre più sferzata da venti nazionalisti: la democrazia non è ancora andata perduta e le sue istituzioni non sono più disposte a voltare la testa dall’altra parte. Che la strada da fare sia ancora lunga è innegabile, ma, almeno per un momento, possiamo essere felici e prendere in prestito le parole della madre di Fyssas, che, alla lettura della sentenza, ha esordito con: «Pavlo mio, ce l’hai fatta». E tutti noi, perlomeno per ora, ce l’abbiamo fatta.