Tra calcio e politica: il caso Super League
È di ieri l’ufficialità della fondazione di una nuova lega calcistica, la “Super League”, una competizione che sarà governata dai Club Fondatori. In Italia vi hanno aderito Inter, Milan e Juventus; dalla Spagna, invece, Barcellona, Atletico Madrid e Real Madrid; dal fronte inglese, Chelsea, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Tottenham e Arsenal. Rimangono fuori, al momento, le squadre francesi e tedesche.
La creazione della Super League arriva in un momento in cui la pandemia globale ha accelerato l’instabilità dell’attuale modello calcistico europeo. Secondo i club fondatori, la pandemia avrebbe evidenziato la necessità di una visione strategica e di un approccio sostenibile dal punto di vista commerciale per accrescere valore e sostegno a beneficio dell’intero calcio europeo. È però nella sostanza un progetto nato e costituito dalle squadre più ricche per salvare i propri investimenti in un periodo di crisi economica che non ha risparmiato nemmeno il mondo del calcio.
Molti tifosi, allenatori e squadre di calcio che non vi hanno aderito (come il Bayern Monaco, vincitrice dell’ultima edizione della Champions League) hanno già annunciato a più voci la loro contrarietà alla nuova competizione. Un momento di caos interno al mondo del calcio, che non ha però escluso dal dibattito anche voci politiche. Come noto, infatti, il calcio non può essere considerato semplicemente sport ma è molto di più: è, oggi più che mai, anche politica. E la scesa in campo del Presidente francese Macron e del Premier inglese Johnson ne è la prova.
Macron e Johnson, pur trovandosi nell’ultimo periodo in contrasto, sono ora invece uniti nella difesa del modello calcistico attuale (su base nazionale) dalla nuova “geopolitica del calcio”, un sistema chiuso, privatistico e – come sottolineato da molti – oligopolistico. Il calcio, infatti, è un fenomeno di portata sociale globale, capace di unire nazioni e in un momento di crisi sociale, come quella attuale, come potrebbero gli Stati accettare di non avere più nelle mani questo strumento?
Il calcio, inoltre, è capace di portare ogni anno investimenti esagerati. E gli Stati lo difenderanno, costi quel che costi. Jonhson, ad esempio, schierandosi contro il classismo dei club più ricchi, denuncia il nuovo progetto proprio perché colpirebbe “il cuore dell’attività calcistica nazionale”. Dall’altra parte della Manica, invece, Macron considera il progetto “totalmente sbagliato” e si dice pronto a «compiere tutti i passi necessari» per sostenere chi si opporrà a questo nuovo progetto. Il riferimento che viene in mente è sicuramente quello dell’autonomia strategica europea. Uno dei massimi fautori della nuova strategia lanciata da Bruxelles è infatti proprio Macron, che applica ora la ricerca di una autonomia europea anche al calcio. Come potrebbe, così schierato nella ricerca di un’Europa sempre più in grado di esprimere in autonomia le proprie scelte, plasmando il mondo sui propri valori e principi ed erodendo man mano la propria dipendenza da Paesi come USA o Cina, sostenere un progetto calcistico con le principali squadre che hanno un rapporto diretto proprio con questi Paesi?
La chiamata alle armi delle varie Leghe nazionali, scese in campo contro il progetto “Super League” al grido de “il calcio è di chi lo ama”, infatti, è solo un pretesto. Il calcio da tempo ormai non appartiene più ai tifosi. Più o meno dal momento in cui le partite sono sbarcate sul piccolo schermo e la pubblicità ha iniziato a dettarne le regole a suon di milioni con sponsor, diritti tv ecc.
FIFA e UEFA in primis hanno permesso che il calcio si allontanasse dalle persone per seguire la scia degli investimenti faraonici e degli investitori extraeuropei. Ora ci si sorprende se il calcio ha virato esplicitamente verso una soluzione privatistica?
L’Europa però non ci sta. Anche diverse istituzioni europee hanno dimostrato la propria contrarietà, tra cui il Parlamento europeo. Anche il vicepresidente della Commissione Margaritīs Schoinas ha affermato come in Europa non possa esserci «spazio per un modello calcistico riservato ai pochi ricchi e potenti». Una difesa a spada tratta dell’autonomia del modello calcistico europeo che deve rispecchiare in pieno i valori di tutta l’Unione: inclusione, universalità e diversità.
Il mondo del calcio è davanti ad una vera e propria rivoluzione, un turning point della sua storia. Ciò che appare evidente è che davanti all’indignazione generale che questa nuova competizione ha generato, la politica ha molto da dire. Il motivo non è certo salvare quei valori sportivi tanto richiamati oggi; la vera ragione è salvaguardare uno strumento politico posseduto dagli Stati che sta così sfuggendo dalle loro mani per spostarsi verso organizzazioni private o- peggio- verso altri Stati competitors dell’Europa a livello geopolitico, Cina e Stati mediorientali in primis. La pandemia ha accelerato il cambiamento, cambierà anche il modello calcistico europeo?