Siamo quello che mangiamo: le nuove frontiere della ricerca sul Parkinson
Siamo quello che mangiamo: le nuove frontiere della ricerca sul Parkinson

Siamo quello che mangiamo: le nuove frontiere della ricerca sul Parkinson

Siamo quello che mangiamo: le nuove frontiere della ricerca sul Parkinson

«Noi siamo quello che mangiamo». Così Ludwig Feuerbach, filosofo tedesco dell’Ottocento, riassume il suo materialismo antropologico. Nella sua teoria degli alimenti, Feuerbach si concentra sul rapporto dell’uomo con il cibo, in un’ottica di unità psicofisica in cui il materiale diventa una base essenziale per la crescita spirituale dell’individuo stesso.

E se, da un lato, la maniera in cui la nutrizione influenza il benessere fisico è ben nota, dall’altro, negli ultimi anni, sempre più attenzione è stata rivolta a come il cibo si ripercuota sulla salute psicologica e cognitiva. Le più recenti scoperte in merito alla flora batterica intestinale e al suo rapporto con il cervello sono da inquadrarsi in questa cornice.

Quando l’intestino comunica con il cervello

Con il termine “microbiota” si intende tutta quella comunità di microrganismi simbiotici e patogeni che vive nel nostro corpo. L’intestino, in particolare, sembra essere il posto in cui proliferano di più: il numero dei batteri intestinali equivale a quello di tutte le cellule del nostro intero corpo e la loro capacità metabolica complessiva è la stessa di un fegato umano. 

Recenti scoperte hanno messo in evidenza come questa fiorente comunità batterica intrattenga un rapporto incredibilmente stretto con un organo relativamente lontano: il cervello.
Il microbiota, infatti, comunica con il cervello tramite diversi canali, tra cui il sistema immunitario, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il sistema nervoso enterico, ovvero l’insieme di neuroni che circondano l’intestino e che ne controllano le funzioni in maniera indipendente, tanto da meritarsi il nome di “secondo cervello”.

I risultati di questa comunicazione, che rimane sempre bidirezionale, sono stupefacenti: i batteri gastrointestinali possono modificare la plasticità neuronale, – cioè l’abilità dei neuroni di alterare la propria struttura e funzione- l’espressione genica delle cellule nervose, nonché i sistemi di neurotrasmettitori, con conseguenze che si ripercuotono fino al livello comportamentale. Quando, però, il meccanismo di comunicazione è compromesso oppure ci sono degli agenti potenzialmente pericolosi, questo asse tra intestino e cervello può dare origine a conseguenze devastanti.

L’ultima ipotesi sul Parkinson

Il morbo di Parkinson è un disturbo neurodegenerativo progressivo che, ad oggi, si stima affligga più di 6,3 milioni di persone nel mondo. Prototipico disturbo del movimento, è caratterizzato dai tipici tremori, rigidità, instabilità posturale e lentezza nei movimenti, ma anche da sintomi fuori dalla sfera motoria, primo fra tutti la costipazione.

Se già da vari anni si era a conoscenza della causa cellulare del Parkinson, ovvero l’accumulo della proteina α-sinucleina fosforilata nei neuroni che usano dopamina come neurotrasmettitore, è abbastanza recente la scoperta che questa stessa proteina può viaggiare tra le cellule, comportandosi in maniera simile ad un virus e “infettando” le cellule che ancora non la esprimono. E se a queste scoperte si aggiungono le considerazioni su come il tratto gastrointestinale dei pazienti affetti da Parkinson sia infiammato e come i neuroni del sistema nervoso enterico di questi individui presentino anch’essi accumuli di α-sinucleina fosforilata, le conclusioni possono sembrare quasi fantascientifiche. Alcuni studiosi, infatti, hanno ipotizzato che il morbo di Parkinson si sviluppi nell’intestino e che poi si trasmetta ai neuroni cerebrali grazie al nervo vago, che connette il tronco encefalico alle strutture del tratto gastrointestinale e al sistema nervoso enterico.

Tradotto: i batteri del nostro intestino, il cui benessere è anche influenzato dalla nostra dieta, potrebbero essere responsabili, almeno in parte, dell’insorgenza di uno dei disturbi più debilitanti a livello fisico e cognitivo e giocare, quindi, anche un ruolo rilevante nella risposta ai trattamenti. 

Certamente, dal momento che risultati definitivi non sono ancora stati raggiunti, questa rimane solo un’ipotesi che ulteriori ricerche dovranno corroborare ma, in ogni caso, se ne può già trarre un suggerimento: ricordiamoci di mangiare yogurt.