Le elezioni in Iran e l’accordo sul nucleare
Le elezioni in Iran e l’accordo sul nucleare

Le elezioni in Iran e l’accordo sul nucleare

Le elezioni in Iran e l’accordo sul nucleare

Le elezioni presidenziali in Iran hanno confermato la vittoria del candidato favorito, ovvero il giudice ultraconservatore Ebrahim Raisi con il 62% delle preferenze. Regime teocratico dal 1979, in Iran, di fatto, le elezioni non sono mai state pienamente libere e corrette ma in questa occasione la Repubblica islamica si è dimostrata particolarmente poco attenta alle istanze dei suoi cittadini e ciò fa emergere alcuni dubbi sulla legittimità della sua leadership e su eventuali proteste nei confronti del nuovo presidente. Inoltre, la non velata diffidenza di Raisi nei confronti degli Stati Uniti potrebbe portare a nuove tensioni non solo in Medio Oriente ma anche a livello globale.

Le elezioni del 18 giugno

L’affluenza ha registrato il dato più basso della storia (il 48%), soprattutto tra gli elettori riformisti, che si sono ritrovati senza un candidato forte a rappresentarli. L’astensionismo così alto è stato causato da due fattori: innanzitutto il mandato del predecessore Rouhani, presidente moderato, è risultato inconcludente rispetto alle promesse di riforma della Repubblica teocratica. I cittadini hanno optato quindi per una personalità che si è proposta di fornire risposte pragmatiche alle esigenze del Paese sia all’interno che all’esterno, soprattutto riguardo i rapporti con gli Stati Uniti.

Ma la vera ragione che ha spinto i cittadini iraniani a non presentarsi alle urne è stata la censura operata dal Consiglio dei Guardiani, il quale ha escluso dalla competizione candidati come Ali Larijani e altre figure moderate o riformiste. Nonostante il successo schiacciante del candidato più voluto dall’Ayatollah Khamenei e dai membri più autorevoli della Guida Suprema, il problema che dovrà affrontare da subito il nuovo presidente riguarderà proprio la gestione della ridotta legittimità prodotta da queste votazioni, dato che più della metà della popolazione si è rifiutata di votare.

Inoltre, va sottolineato come la mancata apertura nei confronti delle libertà sociali e politiche attraverso nuove idee che concilino democrazia e islam risulti poco apprezzata già da tempo da buona parte degli iraniani, per la maggior parte giovani in cerca di un impiego redditizio. Quello che ostacola il Paese nella ricerca di uno sviluppo proporzionato alle sue potenzialità (ricchissimo di petrolio, gas e metalli) deriva, inoltre, da una parte, da un radicatissimo gender gap che vede le donne fortemente penalizzate nell’accesso al mondo del lavoro con la conseguente difficoltà di raggiungere l’emancipazione economica, e dall’altra da un disequilibrio tra sovraqualificazione dei lavoratori e offerta del mercato del lavoro.

Reazioni dall’estero e accordo sul nucleare

Come era prevedibile, le reazioni della comunità internazionali ai risultati delle elezioni non si sono fatte attendere: Putin si è congratulato subito per il risultato, mentre Israele si è espresso negativamente per le posizioni estremiste del vincitore. Le conseguenze più significative delle elezioni riguardano però l’accordo sul nucleare (JCPOA), voluto dai 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (più la Germania) e l’Unione europea per convincere l’Iran a limitare le procedure di arricchimento dell’uranio, utile per produrre eventuali armi nucleari.

Sin dagli anni 2000, da quando è iniziata la politica di potenziamento nucleare, il Paese ha dichiarato di avere obiettivi civili e volti alla produzione di energia. Tuttavia, i Paesi occidentali, piuttosto scettici sulle reali intenzioni iraniane, sotto l’impulso degli Stati Uniti, hanno da subito optato per l’imposizione di sanzioni, portando l’economia iraniana sull’orlo del collasso. Solo ne 2015, però, si è arrivati al Piano di Azione Congiunto Globale con cui l’Iran si impegnava a ridurre sensibilmente le attività di arricchimento dell’uranio in cambio della cessazione delle sanzioni economiche.

Tuttavia, nel 2018 il presidente Trump ha portato gli Stati Uniti ad uscire unilateralmente dall’accordo, rilanciando le sanzioni, per convincere l’Iran a ridurre le proprie ingerenze nei Paesi limitrofi, tra cui Siria, Libano e Yemen. Le altre parti all’accordo hanno criticato questa scelta e oggi il nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha inserito il rientro nell’accordo sul nucleare come una priorità all’interno del suo piano di strategie di politica estera americana.

Alla luce di queste elezioni si presume che i negoziati continueranno o addirittura vedranno un’accelerazione perché se nel 2015 vi era l’idea, da parte dei vertici iraniani, di utilizzare il nuclear deal come piattaforma di dialogo più ampio, ora l’obiettivo dell’Ufficio di Guida Suprema di ottenere un ritiro delle sanzioni è considerata una questione esistenziale. Tuttavia Raisi, durante la sua prima conferenza stampa, ha messo in chiaro che non verranno messe in discussione altre materie, soprattutto a livello militare, dichiarando, inoltre, che non intende avviare un dialogo diretto con gli Stati Uniti. Pertanto, è estremamente probabile che venga data priorità alla linea di negoziato “indiretta” e più ampia condotta a Ginevra e presenziata, oltre che da Iran e USA, anche dall’UE e dagli altri Paesi del cosiddetto “P5 +1” (ovvero Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Germania) con l’obiettivo di raggiungere un nuovo accordo sul nucleare prima del vero e proprio insediamento del nuovo presidente.

A livello geopolitico, l’influenza dell’Iran nella regione mediorientale nei confronti dei Paesi circostanti (soprattutto quelli che ospitano minoranze sciite) ha, al momento, una portata enorme, tale da disputare la leadership regionale all’Arabia Saudita. Un esempio è l’Iraq che, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, ha visto crescere la presenza sul proprio territorio di milizie filoiraniane rivelatesi poi fondamentali nella liberazione del Paese contro l’ISIS e che ora stanno trovando un posto anche a livello politico. Raisi ha fatto sapere che ci saranno molte cose da fare e che la politica estera del Paese non si limiterà all’accordo sul nucleare né si piegherà alle richieste degli Stati Uniti.