Il palazzo di cristallo: memoria e manipolazioni
Il palazzo di cristallo: memoria e manipolazioni

Il palazzo di cristallo: memoria e manipolazioni

Il palazzo di cristallo: memoria e manipolazioni

L’inchiesta di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli che, nel 2017, ha portato alla ribalta una delle pagine più terribili della cronaca nera italiana degli anni ‘90, è diventata, pochi giorni fa, una docu-serie che porta lo stesso nome, Veleno, uscita su una delle piattaforme streaming più famose. Un’occasione, questa, per ribadire, ancora una volta, quanto fallace sia la memoria.

Veleno racconta le vicende di alcune famiglie della Bassa modenese che, tra il 1997 e il 1998, si sono viste portare via i propri figli con le accuse più infamanti: pedofilia e partecipazione a rituali satanici. Poco è importato agli assistenti sociali, agli psicologi e ai magistrati- che giudicarono alcuni degli accusati colpevoli- che tutte le accuse si basassero su testimonianze dei bambini stessi, raccolte con metodi a dir poco discutibili: nessuno dei familiari, nemmeno coloro i quali sono, alla fine, stati prosciolti, ha più rivisto i propri figli.

Memoria: luci ed ombre

Furono le testimonianze dei bambini il punto cardine di tutta l’inchiesta sui cosiddetti “Diavoli della Bassa modenese”. Per capire come mai questo sia rilevante è necessario fare un passo indietro e comprendere in che maniera funzioni la memoria. 

Al contrario di quanto comunemente ritenuto, la memoria è tutt’altro che perfetta, ben lontana dall’essere una videocamera capace di registrare tutto ciò che accade e ricordare non significa certo premere il tasto rewind e far ripartire il video dall’inizio. Per quanto strano possa sembrare, ricordare è un processo ricostruttivo. Le tracce di memoria che vengono immagazzinata nella corteccia cerebrale, vengono riattivate nell’ippocampo, parte del cervello fondamentale dei processi mnestici, cosicché sia possibile costruire una nuova rappresentazione, ogni volta che si ricordano episodi passati. Dopodiché, le tracce vengono nuovamente immagazzinate nella corteccia, in un processo di riconosolidamento. Di fatto, quindi, i ricordi diventano malleabili nel momento in cui vengono rivissuti e poi consolidati nuovamente, in una “finestra” di tempo che dà la possibilità di manipolarli: se nuovi elementi vengono aggiunti all’interno di questa finestra, allora saranno immagazzinati con gli elementi originali, rendendo le successive rievocazioni inaccurate. 

Quando la memoria entra nelle aule di tribunale

La testimonianza diretta delle vittime è percepita generalmente come una della più potenti forme di prova a favore dell’accusa. Quante volte, nei film, abbiamo visto l’avvocato avvicinarsi al banco dei testimoni e chiedere alla vittima se riconoscesse, nella stanza, colui il quale le ha fatto del male? Nonostante si tratti di una scena un po’ mainstream, è indicativa dell’attenzione e della valenza che il pubblico dà alla testimonianza. Probabilmente una fiducia mal riposta: nel 75% dei casi in cui l’accusato è stato poi prosciolto grazie al test del DNA, testimoni avevano confermato che si trattasse proprio del colpevole. 75%, una percentuale altissima di identificazioni errate che hanno contribuito alla condanna di persone innocenti.

Come fare, quindi, a ridare il giusto peso alla testimonianza diretta? Informando coloro i quali sono responsabili di raccogliere le interviste, di procedere con le indagini, di fare domande ed interpretare i risultati. Proprio ciò che non è stato fatto, stando a quanto emerge dall’inchiesta di Veleno, nel caso dei bambini della Bassa modenese. Domande tutt’altro che neutrali, in cui la risposta delle volte era contenuta nella domanda stessa. Domande in cui chi stava dall’altra parte non veniva rassicurato sul fatto che non ricordarsi non fosse un problema, che non ci fossero risposte giuste o risposte sbagliate. Domande fatte da adulti a bambini che erano stati portati via alle prime luci dell’alba dalle proprie case e dalle proprie famiglie. 

Modellare la memoria di altri a proprio piacimento è più facile di quanto possa sembrare e numerosi esperimenti, come quelli di Elizabeth Loftus, psicologa statunitense, hanno provato che si possono impiantare ricordi, anche traumatici, nella mente di adulti, oppure si possono manipolare le loro risposte a seconda della scelta delle parole usate per le domande. Nel caso di bambini, tutto il processo è facilitato dal loro “voler compiacere” una figura autorevole più grande che gli sta di fronte, come quella di uno psicologo. Per questo è necessario non solo che le persone competenti siano formate, ma anche che il pubblico capisca quanto fragile effettivamente sia la memoria e con quanta facilità possa essere alterata: essere sicuri di quanto si stia dicendo non significa necessariamente essere accurati al 100%.