Il co-ed: la moda (inclusiva) del futuro
Il co-ed: la moda (inclusiva) del futuro

Il co-ed: la moda (inclusiva) del futuro

Il co-ed: la moda (inclusiva) del futuro

L’arte e la realtà si differenziano per molti aspetti e per altri sono simili ma se c’è una certezza, è che nell’arte le rivoluzioni avvengono prima.

Nel fashion system la battaglia per l’inclusione sociale– uno dei temi più discussi- è già iniziata da molti anni. Parliamo di co-ed, la nuova formula della moda in cui le collezioni maschile e femminile si presentano unite sulle passerelle, in un unico fashion show. Prima del co-ed le fashion week si distinguevano per genere, realizzando le collezioni in momenti diversi dell’anno: questa formula di cui parliamo non è soltanto una scelta pratica, ma assolutamente simbolica. Celebrando questa unione, i grandi della moda non solo si alleano ad una fetta di società ancora emarginata e messa da parte, ma, anticipando le tendenze del futuro, mirano ad annientare l’immaginario del capo esclusivamente maschile e del capo esclusivamente femminile. Tra i brand più rappresentativi di questa scelta troviamo Gucci e Bottega Veneta, anche se già nei gloriosi anni ’80 Giorgio Armani aveva fatto sfilare le donne nel defilè maschile ( lo fa tuttora) e Vivienne Westwood con la collezione Pirate aveva anticipato la copresenza dei due generi in passerella. Altro brand in cui vige la regola dell’inclusione, posizionato in una fascia diversa rispetto ai due sopracitati, è quello che porta il nome di Marco Rambaldi, una nuova promessa del fashion. È molto interessante scoprire che nella collezione SS21, presentata in Via Lecco a Milano, nel cuore di Porta Venezia, (luogo multiculturale e fortemente legato alla comunità LGBTQI+) siano presenti non persone, ma personalità: lui stesso afferma di aver scelto persone che avessero una storia da raccontare.

Dal co-ed al gender fluid

Il co-ed, la compresenza dei due generi, può avere obiettivi diversi e tra questi vi è il gender fluid che rappresenta oggi un aspetto consolidato nel fashion system visto che non esiste collezione che non abbia preso in considerazione il concetto di fluidità. Non si può non parlare ancora una volta del brand che più di tutti ha dato forma alla modernità: Gucci, il cui direttore artistico, Alessandro Michele, si è aggiudicato il 2015 International Designer Award perché «la sua estetica così eclettica ha avuto un impatto forte e immediato sulle tendenze globali». Oltretutto in una delle sue prime collezioni compie un atto quasi rivoluzionario, quello di invertire la “normalità”: le donne indossano vestiti da uomo, gli uomini indossano vestiti da donna, un gesto che definire politico è poco. Questa definizione potrebbe però essere una forzatura, perché compiere un atto politico implica il più delle volte un’intenzione politica, quella che Michele non ha: «ho solo raccontato un mondo che esiste. Qualcuno ci ha visto anche qualcosa di politico. La mia era solo una lettura estetica di quello che vedo per strada che è anche ciò che adoro fare: sedermi a un bar e osservare», dichiara in un’intervista. Il messaggio è quello di considerare il mondo dell’estetica vicino al gusto e alla cultura, in cui non c’è spazio per la biologia.

Altro esempio è quello di Valentino: Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo, dopo aver realizzato una campagna pubblicitaria in cui si rappresenta la fluidità di genere attraverso l’autoritratto di Michael Bailey Gates su Instagram, è stato sommerso dalle critiche bigotte e dall’odio di chi non è ancora pronto ad accettare l’espressione della libertà individuale. Piccioli risponde alle critiche così: «dobbiamo condannare ogni forma di violenza, odio, discriminazione e razzismo e sono felice di poter utilizzare la mia voce e il mio lavoro per farlo, ora e per sempre. Questa fotografia è un autoritratto di un giovane uomo e il male è negli occhi di chi guarda, non nel suo corpo nudo. Il cambiamento è possibile, nessuno ha mai detto fosse facile ma sono pronto ad affrontare le difficoltà, nel nome della libertà, dell’amore, della tolleranza e della crescita personale».

E nel nome di questi valori speriamo che il linguaggio della moda sia uno dei mezzi per normalizzare ciò che dovrebbe già essere una realtà consolidata: l’essere sé stessi.