Climate Refugees Cities: una nuova frontiera per i rifugiati  climatici
Climate Refugees Cities: una nuova frontiera per i rifugiati climatici

Climate Refugees Cities: una nuova frontiera per i rifugiati climatici

Climate Refugees Cities: una nuova frontiera per i rifugiati climatici

Gli esseri umani, si spostano, migrano. L’uomo, nell’arco della storia, si è sempre spostato e per le motivazioni più varie: ricerca di cibo, migliori condizioni climatiche, migliori possibilità economiche, nuove terre da coltivare, da abitare, da occupare. Ma anche per fuggire e cercare riparo da altri esseri umani ostili.

Cambiamenti climatici e migrazioni

Oggi le migrazioni continuano e tra i motivi principali che spingono l’uomo ad abbandonare il proprio luogo di origine, si stanno facendo strada con progressiva forza motivi di tipo climatico e ambientale dovuti al deterioramento dell’ambiente di vita- fino all’impossibilità di restarvi- causati dall’impatto della stessa attività umana sul territorio.  Si parla di una categoria di migranti il cui status non è stato ancora riconosciuto appieno dal diritto internazionale ma che, a causa dell’accelerazione della crisi climatica in cui sta precipitando il Pianeta, gli Stati non possono più ignorare visto che la portata dei flussi  migratori in questione potrebbe, in tempi brevi, costringere a calcolarne l’entità non in  termini di gruppi o porzioni di popolazioni ma in termini di intere Nazioni.

Alla base della necessità di abbandonare le proprie terre, infatti, ci sono sempre più spesso il degrado dellʼambiente e la distruzione delle economie locali dovuti allʼestrazione delle risorse, alla contaminazione e agli effetti devastanti del riscaldamento globale. Le migrazioni forzate per cause ambientali sono quindi sempre più connesse, come detto, all’attività antropica. Tra i motivi principali che comportano la perdita degli habitat troviamo: gli effetti dei cambiamenti climatici (scioglimento dei ghiacci, innalzamento dei livelli del mare, acidificazione degli oceani, desertificazione ecc..); il c.d. land grabbing ossia la pratica che porta ad un impoverimento dei terreni dopo l’utilizzo per la coltivazione intensiva di prodotti da esportare; l’urbanizzazione non regolata; l’inquinamento di terreni agricoli e falde acquifere e lo sfruttamento minerario incontrollato.

Solo l’anno scorso, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, 17,2 milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa fenomeni distruttivi e di rischi meteorologici. Inoltre, secondo l’UNHCR «le regioni in via di sviluppo, che sono tra le più vulnerabili dal punto di vista climatico, ospitano l’84% dei rifugiati climatici del mondo. Gli eventi meteorologici estremi e i pericoli in queste regioni che ospitano i rifugiati stanno sconvolgendo la loro vita ed esacerbando i loro bisogni umanitari, costringendoli perfino a fuggire di nuovo».

Un dato, questo, che va letto insieme a quello che vede la provenienza del 68% di questi rifugiati da soli 5 Paesi. Va notato che i territori più esposti dal punto di vista climatico sono anche quelli dove molto spesso scoppiano conflitti; dove la persecuzione etnica, culturale, politica, è più frequente e dove dunque è più difficile identificare il motivo climatico in una condizione che vede spesso più forze interagenti.

A complicare ancora di più il dato statistico vi è il fattore che vede la maggioranza della popolazione afflitta dagli effetti dei cambiamenti climatici essere costituita da sfollati interni. Tutto ciò contribuisce a rendere, pertanto, le statistiche generali imprecise e verosimilmente con una tendenza a sottostimare il dato climatico/ambientale.

Infine, proprio perché è sempre vero che la lingua batte dove il dente duole, questa galassia fitta di situazioni umanitarie porta confusione laddove la precisione del diritto impone status giuridici netti riguardo i motivi sottostanti le migrazioni e lo spostamento delle persone. Dunque, se ci si chiede se esistano rifugiati climatici, per il diritto internazionale attualmente la risposta è: no.

La protezione di rifugiati e migranti climatici

Per il diritto internazionale il rifugiato è una persona che:

«temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato  gruppo sociale o per le sue opinione politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e  non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese;  oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il  timore di cui sopra».

Articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui Rifugiati.

In alcuni contesti, la definizione si può estendere alle persone in fuga da «eventi che perturbano gravemente l’ordine pubblico» (Convenzione OUA del 1969 e Dichiarazione di Cartagena del 1984). Da queste definizioni risulta chiara l’esclusione da tale fattispecie di tutti coloro che sono spinti ad abbandonare il proprio habitat a causa di motivi climatici e legati al drastico cambiamento dell’ambiente naturale. Considerata la premessa, è necessario analizzare la questione in ordine alle due problematiche principali che negano di fatto ai c.d “rifugiati climatici” di accedere allo status di rifugiati a tutti gli effetti.

In primo luogo, va notata la dimensione “interna” del fenomeno che vede la stramaggioranza delle persone costrette a spostarsi, rimanere all’interno del proprio Paese di origine. Questo dato ha portato lo stesso UNHCR a parlare pertanto di “persone sfollate nel contesto di disastri e cambiamenti climatici”. Eppure, anche l’Alto Commissario per i Rifugiati, Filippo Grandi, si è trovato ad ammettere che «l’immagine che [l’espressione “rifugiati climatici”]  trasmette – di persone fuggite dalle loro case a causa dell’emergenza climatica – ha  giustamente catturato l’attenzione dell’opinione pubblica». Ciò a riprova che potrebbe risultare riduttivo definire il fenomeno solo in termini di “sfollamento”.

In secondo luogo, infatti, va considerata anche la componente- seppur minoritaria al momento- di persone che invece fugge in un altro Stato. In questi casi lo status di rifugiato non viene accordato poiché a mancare sarebbe l’aspetto della persecuzione e del pericolo immediato per la vita. In questo già complesso mosaico va introdotta, poi, una ulteriore complicazione che vede la possibilità di dover inquadrare due tipologie di figure: quella del “rifugiato” e del “migrante” climatico. Mentre nella prima rileva l’elemento della costrizione all’abbandono del luogo di origine per l’oggettiva impossibilità di continuare ad abitarlo; riguardo la seconda, la generalità della categoria del migrante pone in evidenza l’assenza di un qualsiasi nesso giuridico che possa collocarla sotto l’ombrello dell’attuale protezione riservata ai rifugiati.

Tutto ciò, però, non significa che queste persone non abbiano diritto a forme di protezione riconosciute dalla comunità internazionale. Oltre ai vari interventi che hanno coinvolto organismi di tutto il mondo, dal Consiglio d’Europa alla Corte europea dei diritti dell’uomo passando per la COP 21 di Parigi, e che vedono farsi sempre più forte il legame tra diritti umani, tutela dell’ambiente e cambiamenti climatici, risulta significativo citare il Global Compact sui Rifugiati del 2018.

Tale documento rappresenta un deciso passo avanti da parte della comunità internazionale per colmare le lacune presenti nella tutela dei diritti umani in un contesto che vede, in prospettiva, un incremento delle richieste di assistenza e protezione per le persone costrette ad abbandonare il proprio habitat per motivi climatici. Viene riconosciuto infatti l’assunto per cui i movimenti delle persone hanno origine complessa e i disastri climatici possono essere un fattore fondamentale. Se la crisi climatica costringe in maniera più o meno diretta migliaia di persone a fuggire, questi devono essere protetti e assistiti.

Il Global Compact mira, dunque, a rafforzare la risposta internazionale ai flussi di rifugiati cercando di agire alleggerendo la pressione sui Paesi ospitanti e fornendo supporto ai Paesi di origine per favorire il reinsediamento; di migliorare l’autosufficienza dei rifugiati e di ampliare la possibilità di accesso a soluzioni di diverso tipo che possano coinvolgere e includere Paesi terzi.

È proprio a questo riguardo che si sta facendo strada quella che potrebbe rappresentare una doppia risposta a un doppio problema: mentre nel mondo occidentale alcune città si stanno letteralmente svuotando, abbandonate dai propri cittadini perché scollegate dai grandi centri economici e dalle metropoli, nel resto del mondo-e soprattutto nei Paesi meno sviluppati- molte zone diventano inabitabili perché colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici. Questo trend è destinato a crescere nei prossimi anni ma forse alcune soluzioni esistono già: le “Climate Refugees Cities” ne sono un esempio.

Cosa sono le “Climate Refugees Cities”?

Uno studio recente della Banca mondiale del 2018 ha previsto che, entro il 2050, 143 milioni di persone saranno sfollate all’interno dei propri Paesi a causa degli impatti climatici nella sola Africa sub-sahariana, America Latina e Asia meridionale. Un modello prodotto lo scorso anno dagli stessi ricercatori ha stimato, poi, che 30 milioni di rifugiati climatici potrebbero arrivare negli Stati Uniti dal solo centro America entro il 2050. Quindi un numero crescente di studiosi e sostenitori dello sviluppo urbano crede che sia ora di iniziare a pianificare i “paradisi climatici”: città che sono isolate dalle condizioni meteorologiche estreme e hanno lo spazio e le risorse per crescere.

Ecco perché, proprio negli Usa, città come Duluth (Minnesota), Cincinnati (Ohio) e Buffalo (New York) si stanno sforzando di presentarsi come potenziali destinazioni di trasferimento per coloro che cercano di sfuggire agli effetti dei cambiamenti climatici nei propri Paesi.

Uno studio condotto dall’Università di Harvard ha evidenziato come «queste città (in  particolare Duluth e Buffalo) siano ben posizionate, in quanto hanno un clima fresco che  rimarrà relativamente mite anche con l’aumento delle temperature e un facile accesso  all’acqua dolce attraverso i Grandi Laghi e inoltre affrontano il minimo rischio di incendi  e tempeste costiere», che ne fanno destinazioni vantaggiose in un mondo che si riscalda.

All’inizio del 2019, Duluth ha ospitato una conferenza in cui il Prof. Jesse Keenan, scienziato sociale e docente presso la Graduate School of Design di Harvard, ha  presentato il suo progetto per la città, mostrando come gli edifici vuoti e le infrastrutture  sottoutilizzate potrebbero essere riproposte. Duluth ospita, infatti, 86.000 abitanti ma può ospitarne il doppio. Keenan ha mostrato un prospetto della città con 45.000 nuove unità abitative, un ospedale ampliato e una nuova stazione ferroviaria. Ha persino suggerito un nuovo slogan per la città: Duluth a prova di clima”.

Duluth (Minnesota)

Sebbene, invece, Cincinnati non sia immune dai cambiamenti climatici, lo stesso Piano Verde 2018 della città rilevava che essa sarebbe «situata al di fuori delle aree del probabile disastro» e sarebbe quindi «ben posizionata per diventare un paradiso climatico». L’idea di promuovere la città come rifugio per il clima è nata dopo che alcune delle migliaia di persone sfollate dall’uragano Katrina nel 2005 scelsero proprio Cincinnati come meta.

Scalo ferroviario di Cincinnati (Ohio)

Ma tra tutte forse Buffalo potrebbe mostrarsi l’esempio e il caso di studio più promettente. Il clima fresco della regione e l’ampia disposizione di acqua dolce potrebbero renderla una destinazione attraente mentre il pianeta si riscalda. Buffalo, inoltre, ha spazio per crescere: la popolazione della città è diminuita della metà negli ultimi 70 anni di declino industriale, passando da circa 580.000 abitanti a 260.000 lasciando abbastanza terra, alloggi, infrastrutture fognarie e idriche per supportare centinaia di migliaia di persone in più.

Uno studio condotto dalla SUNY Buffalo State e guidato dallo scienziato climatico  Stephen Vermette ha evidenziato che «mentre il clima più caldo ha alimentato gli incendi  in California, gli uragani lungo la costa del Golfo e le inondazioni nel Midwest, il  cambiamento climatico ha lasciato la parte occidentale di New York per lo più  intatta». Vermette non ha trovato prove che le precipitazioni siano diventate più gravi o che le ondate di calore siano diventate più frequenti.

Tutto ciò ha portato il sindaco Byron Brown, nel suo discorso sullo “stato della città” del 2019, a soprannominare Buffalo una Climate Refugees City“: «Buffalo si sta preparando ad accogliere questo nuovo tipo  di rifugiato», ha aggiunto il sindaco Brown; «crediamo di poter ospitare persone che hanno subito sfollamenti a causa di condizioni meteorologiche avverse e disastri  naturali». Il tutto in un’ottica win-winche darebbe la possibilità a Buffalo di potersi rianimare “riempiendo i suoi lotti vuoti e le vetrine abbandonate”.

Una strategia, infine, su cui l’intera comunità internazionale potrebbe e dovrebbe riflettere nell’ottica di mettere a sistema un progetto in grado di affrontare un problema di carattere globale, come quello dei rifugiati climatici, non più in termini di sola assistenza ma guardandola come un’opportunità di sviluppo sostenibile, di integrazione e di redistribuzione di problemi e responsabilità su scala globale.